Era stata una lunga camminata intrapresa con spirito allegro. A parte una
breve sparatoria contro un nemico lontanissimo e invisibile, il guaio era
consistito solo nel guado dei torrenti, visto che il nemico, il solito
benefattore, aveva avuto il tempo di distruggere i ponti. Su un torrente in
particolare, stretto ma profondo, limaccioso, vorticoso, si erano trovati in
seria difficoltà. Una lunga, spessa tavola gettata sul torrente aveva
realizzato un semplicissimo, rudimentale ponte sulla gelida acqua proveniente
direttamente, precipitosamente e vorticosamente dalle alte vette dei monti
tutto intorno.
Aveva
un grave difetto, quel ponte (se così lo vogliamo chiamare): con il torrente
in piena la tavola era appena alcuni centimetri sopra il pelo dell’acqua ed
egli con il suo pesante carico (la mitragliatrice, le munizioni, il sacco e
tutto il resto del suo equipaggiamento) aveva appena mosso due passi sul
traballante tavolone, che la parte centrale dello stesso era sparita
nell’acqua torbida e mano a mano che avanzava, la tavola si fletteva e
sprofondava sempre più e a metà del passaggio egli era immerso fino al
ginocchio, mentre l’acqua, torbida, fangosa, mozzante nel suo gelo, gli
turbinava intorno ai polpacci. Era impossibile vedere la tavola e doveva
avanzare passo passo, tastando bene con il piede.
Era
impaurito ma in qualche modo riuscì a continuare fino a quando si
trovò in salvo sull’altra sponda. Poco dopo tutti erano sull’altra riva
del torrente.
Dieci
minuti di sosta per togliersi gli scarponi e vuotarli dell’acqua, per
strizzare i calzettoni e i pantaloni, rivestirsi, e rimettersi il carico in
spalla.
(...)
La bella chiesetta sul crinale, con a ridosso l’abitazione del parroco e,
poco sotto, una casa di contadini. Il tutto nel più completo abbandono perché
il caso aveva voluto che la chiesetta, con il casolare e altre case sparse, si
fossero venute a trovare nella terra di nessuno. E in un luogo pericoloso
perché ben in vista delle linee tedesche.
A poche centinaia di metri dalla chiesetta e più in alto della stessa, due
sentieri, provenienti dalle linee tedesche, si riunivano a formarne uno solo
diretto alla linea tenuta dagli americani e dai partigiani. Ed era lì,
all’incrocio dei sentieri, che i tedeschi sorprendevano spesso coloro
che tentavano di passare il fronte ed era in un grande pascolo
situato molto più a monte che Pelo e i suoi compagni
attendevano gli stessi per sottrarli ai tedeschi e portarli in salvo.
Poco dopo l’incrocio dei sentieri c’era la casermetta della forestale, sul
lato destro del sentiero, abbandonata anche questa, con davanti il pascolo ed
alle spalle il bosco. Tutto bianco di calce, sia all’interno che
all’esterno, quel fabbricato era stato decorato con il carboncino su ogni
spazio libero. Tutte bellissime ragazze tratteggiate da una mano che aveva
evidentemente il tocco felice dell’artista. Quasi tutti i giorni andavano in
ricognizione in quella zona ed ogni volta facevano una puntatina alla
casermetta, senza che mai il caso li avesse fatti incontrare con la pattuglia
tedesca della quale, evidentemente, faceva parte lo sconosciuto artista.
Dicevano: “Sono venuti un’altra volta”. E si fermavano estasiati a
guardare le belle fanciulle e cercavano l’ultima arrivata. Anche Pelo,
ovviamente, le osservava ammirato, ammirato per la bellezza delle ragazze e
per la bravura, la leggerezza, la capacità di sintesi del disegnatore nemico.
Pensava a lui e non riusciva ad immaginarselo in vesti militari, armato e
pronto ad uccidere; lo vedeva piuttosto come un’artista estirpato alla sua
geniale occupazione e costretto a combattere contro il suo volere.
Col passare
del tempo le mura della casermetta si erano riempite di belle figure femminili
e lo spazio che rimaneva a disposizione era ridotto a poco: ancora pochi
giorni e l’incognito artista avrebbe dovuto rinunziare al suo lavoro!
Giando
sapeva disegnare quasi altrettanto bene, ma la sua specializzazione erano le
caricature. Pochi segni tracciati in pochi secondi delineavano il soggetto del
momento, del quale erano messi in evidenza i tratti più notevoli e lo stato
d’animo. Pelo pensava che il futuro di Giando sarebbe stato quello di un
grande caricaturista.
Dove sarà Giando in questo momento? E
dove saranno gli altri amici?
(...)
Notti
addietro era di guardia sul colle. Era in atto un violento scambio di colpi di
artiglieria fra tedeschi e americani, forse per qualche allarme giù nella
valle. Mortai, cannoni, mitragliatrici pesanti; centinaia di scie di
traccianti di tutti i calibri e con tutte le traiettorie possibili si
incrociavano nel cielo, alcune altissime e curve (obici che sparavano da
lontano), altre tese e velocissime (cannoni a tiro teso). Uno spettacolo, se
goduto con tutta calma dalla vetta del colle a mille metri di altezza. Alcuni
dei proiettili, quando urtavano la roccia, rimbalzavano e schizzavano
velocissimi verso l’alto, spegnendosi nel cielo.
(...)
Ogni tanto
capitava che fosse costretto a dormire nella cittadina, per una o per
l’altra ragione e spesso dormiva nel rifugio nel quale si trovava la notte
in cui lo stesso venne distrutto, altre volte dormiva nella casa messa a
disposizione dal comando proprio per simili circostanze. Là si era già
nelle retrovie e le nottate trascorrevano assai più tranquille che al fronte,
sui monti. Più tranquille ma non meno rumorose: infatti i tedeschi sparavano
spesso sulla città, la maggior parte delle volte a casaccio, tanto per dare
noia, altre volte su un obbiettivo ben preciso. Oltre ai cannoni tedeschi
c’erano nei pressi diverse batterie americane e quando quelle cominciavano
non facevano certo risparmio di proiettili.
C’erano
due postazioni di mitragliatrici pesanti, forse calibro 20, americane, che
tutte le notti facevano tiri di sbarramento sui sentieri lontani o a
protezione di posizioni molto esposte. Erano una seccatura ma anche un
divertimento, quelle due mitragliatrici che sparavano senza sosta per nottate
intere, una molto vicina e l’altra più lontana.
(…)
I due
mitraglieri erano probabilmente insieme da molto tempo ed erano ormai ben
affiatati e forse si mettevano d’accordo o forse seguivano l’ispirazione
del momento e organizzavano un concerto tutto particolare.
Cominciava uno: “TA (secco e vicino)
Rispondeva l’altro: “ta (sordo e lontano)
(…)
Come suonassero due tamburi, completamente dimentichi
del fracasso che li circondava.
Pochi
giorni prima, proprio percorrendo quello stesso sentiero, si era sentito
prendere da una grande nostalgia per la sua casa e da una grande voglia di
vedere finalmente finito il lungo, interminabile incubo rappresentato da
quella terribile, sanguinosa guerra. Pensava a quanto aveva atteso e
desiderato il momento in cui le truppe alleate sarebbero giunte fino a loro e,
dopo mesi e mesi di sofferenze in montagna (fame, freddo, pericoli vari,
paura, la vita rischiata ogni giorno) avrebbe potuto finalmente tornare a casa
sua.
Ma i
tedeschi si erano fermati su una nuova linea che attraversava l’Italia
percorrendo i crinali più alti.
(...)
La
formazione della quale faceva parte era diventata un battaglione irregolare
dell’esercito italiano, e avevano avuto le divise e le nuove armi e
l’equipaggiamento necessario. Perché era stato da tutti deciso che essi
avrebbero continuato a combattere fino a quando i tedeschi non se ne fossero
andati dall’Italia e il fascismo distrutto.
Era stato
loro assegnato un tratto di fronte, circa quaranta chilometri, tutto in
montagna, su quelle stesse montagne sulle quali avevano combattuto nel periodo
della clandestinità. I ranghi erano stati un po’ infoltiti e c’erano
tante facce nuove, ma il nerbo era costituito da quelli che avevano passato
insieme tanti mesi, e sofferto insieme, e combattuto insieme.
Aveva anche
potuto far ritorno, per una breve visita, alla sua famiglia e c’erano stati
abbracci e saluti e tanta felicità per la fine della lunga, terribile
odissea. due soli giorni durante i quali aveva, molto sinteticamente, messo al
corrente i suoi delle avventure trascorse.
Saluti cari e ritorno al fronte.
(…)
Pensava al giorno in cui aveva fatto la conoscenza di Pippo, il comandante.
Pippo era il suo nome di battaglia: il suo vero nome era Manrico
Ducceschi ed era pistoiese.
Sullo
stradale ne aveva sentito parlare spesso, dalla gente del posto ed
anche dai tedeschi. Ed era un personaggio che incuteva un certo timore ed era
a volte descritto come un gigante barbuto, violento, sanguinario.
In uno dei
primissimi, sofferti, combattuti, travagliati giorni da partigiano se lo era
trovato davanti: un tizio che si faceva subito distinguere dalla massa
degli altri per il viso aperto, gli occhi vivaci, luminosi:
l’aspetto di uomo intelligente e sveglio. Non un gigante
barbuto dall’aria feroce ma un giovane alto forse un metro e
settanta, dalla faccia ferma, decisa, ma dai lineamenti
gentili, nobili.
Chi
gli era intorno lo chiamava Pippo e lui, colpito
dall’aspetto di quel giovane, chiese al suo vicino chi fosse.
“E’ Pippo.”
“Il comandante?”
“Si, il comandante.”
Lo stava guardando, in quel momento, stava guardando
Pippo, e lui, per una sua qualche ragione, stava guardando Pelo. Questi
si mise a ridere, una risata sonora, inarrestabile; e tutti lo guardavano
perplessi e non capivano e quando riuscì finalmente a fermasi Pippo gli
chiese:
“Perché ridi tanto?”
Spiegò:
rideva perché nel fondo valle tutti lo immaginavano molto diverso da quello
che era ed il pensiero aveva scatenato la sua ilarità. Anche Pippo si mise a
ridere, accompagnato dagli altri e Pelo si prese il primo cicchetto della sua
vita da bandito perché, parlandogli, gli aveva dato del lei e lui non voleva:
“Da noi si usa solo il tu. Ricordalo!”
Ebbe poi modo di conoscerlo bene, divenne uno dei
suoi fedeli e visse con lui tante e tante avventure.
(...)
Erano, quel giorno, in un
paese in alto, sui monti ed un uomo del posto venne, affannato, a parlare a
Pippo. Raccontò, concitatamente, di aver visto un gruppo di tedeschi, circa
cento, fermi su un colle boscoso, proprio sopra al paese nel quale si
trovavano. Era una brutta notizia: loro non erano più di quaranta, nel
paese, in quel momento e avere il nemico sopra poteva voler dire essere presto
raggiunti, accerchiati, distrutti, loro ed il paese.
Pippo li
radunò in fretta e furia e disse che voleva un po’ di volontari, trenta ne
raccolse, per andare a stanare i tedeschi dal colle (così disse) attaccandoli
dal basso: in trenta, armati alla meglio e alla meglio organizzati, contro
cento uomini ben armati.
Partirono
in trenta, e marciarono silenziosamente e alacremente dietro a Pippo, verso la
morte che li attendeva sul colle. Perché a Pelo pareva che quello che si
stava preparando fosse solo un attacco suicida che non avrebbe
sortito altro effetto che quello di ritardare per pochi minuti il cammino dei
tedeschi a costo della vita di tutti loro.
Andarono,
arrivarono e ad un certo punto il comandante li divise in più gruppi e li
dispose intorno al colle. Tutto era silenzio, intorno, e si fermarono nel
fitto del bosco e attesero il segnale e il segnale arrivò e lui si
lanciò all’assalto con gli altri due o tre del suo gruppo. Corse
disperatamente su per la salita, in mezzo agli alberi e giunse in vetta al
colle e improvvisamente si trovò nella radura, ma i tedeschi non c’erano,
la radura era vuota deserta, tranquilla; niente divise verdi, niente
mitragliatrici, niente morte. Di fronte a lui spuntò Pippo lanciato
all’attacco e sorpreso come tutti.
Dove
erano i tedeschi? Possibile che l’uomo avesse avuto le traveggole? No.
In terra erano ben visibili i segni lasciati da innumerevoli scarponi, erba
schiacciata e ramoscelli rotti e qualche mozzicone di sigaretta:
era evidente che fino a poco prima i nemici erano stati lì! Ma
dove erano andati?
Ma dove
erano andati? Spariti, volatilizzati. Forse un pattuglione mandato in
ricognizione che, non avendo trovato niente, si era ritirato
tornando sui suoi passi. Una fortuna sfacciata!
L’episodio dette a Pelo una chiara idea
del carattere del suo comandante, di Pippo.
(...)
In seguito
alla battaglia di Montefiorino ci fu un grande sbandamento e molti uomini
riuscirono a fuggire rifugiandosi chi di qua e chi di là. Molti furono i
fuggiaschi che attraversarono la zona occupata da Pippo ed alcuni
rimasero con lui, portando nuove forze pratiche della lotta.
Un
giorno arrivò un gruppo di questi sbandati, erano una settantina
e chiesero di potersi fermare. Permesso subito accordato, naturalmente, ma
ad alcune condizioni: dovevano sistemarsi in un gruppo di
capanne abbandonate site in un fondo valle appartato, non farsi notare
allontanandosi troppo, non dovevano in alcun modo disturbare i contadini
ed i pastori residenti nei dintorni. Questi erano persone che li avevano
sempre aiutati come meglio potevano, erano loro amici ed alleati e loro ci
tenevamo a che nessuno rompesse loro le scatole!
Era il
tempo in cui Pelo teneva il collegamento fra il suo distaccamento ed il
comando e tutti i giorni attraversava la zona nella quale si trovavano i
nuovi arrivati e tutti i giorni aveva occasione di parlare con i pastori
e contadini del territorio e cominciava a sentire delle lamentele: un
gruppetto di uomini si era presentato in una capanna, aveva preso, di
prepotenza, la pentola grossa ed alcune forme di formaggio e se ne era
andato. In un altro luogo avevano rubato delle coperte, o del pane, ad un
tizio avevano portato via una pecora. Egli raccoglieva queste denunce ed altre
ancora ed un giorno le riferì a Pippo. Egli ascoltò serio,
preoccupato, poi disse: “Domani mattina vieni con me.”
Pippo,
quando pensava, lo faceva passeggiando su e giù; a volte si fermava
tutto compreso tenendo le mani infilate nella cintura, dentro i pantaloni,
l’una per grattare le piaghe della scabbia che
tormentavano tutti, specialmente sul ventre, l’altra per grattarsi il
pube, luogo preferito dai pidocchi e parlava grattandosi e fissando bene in
viso l’interlocutore.
Pidocchi e
scabbia! E fame! Fame, stanchezza, pidocchi e scabbia! Erano il loro tormento:
tutti erano occupati a grattarsi, specialmente sul pube e sotto le ascelle
(pidocchi) e sul ventre, sulle cosce, sul petto e sulla schiena (scabbia).
La mattina
dopo partirono per tempo, Pippo e Pelo, e si incamminarono verso la zona
in cui erano rifugiati gli scampati di Montefiorino. Pippo volle essere prima
guidato presso tutti coloro che si erano lamentati, ascoltò le loro lagnanze,
volle documentarsi con tutti e, una volta sicuro, chiese di essere
accompagnato da quegli uomini.
Li riunì e
parlò al loro capo e si fece sentire e bene. Ricordò i patti stabiliti e
rinfacciò loro il comportamento tenuto. Ordinò di restituire tutto il
maltolto, coperte, pentole, formaggio e tutto quello che non poteva essere
restituito doveva essere pagato e se non lo fate torno qui con i miei uomini e
vi do una bella lezione. E più presto ve ne andate e meglio
è per tutti.
Fu un bel
discorsino, piano, tranquillo, come era suo costume, ma molto chiaro e
serio e non lasciava dubbi in chi lo sentiva e chi lo sentiva capiva anche
bene che con lui non era il caso di scherzare, su certi argomenti!
Pelo lo
stava a sentire: imparò molto, quel giorno, ebbe una bella lezione. Perché,
pensava, noi siamo in due e loro sono in settanta. E se ne dovranno
andare, sono disperati, dalle loro parti non possono tornare e dove
vanno?
E si
trovavano davanti Pippo che, con lui al fianco,
dava loro una dura, inflessibile lezione di comportamento: vi serve una
pentola? Basta chiedere in prestito, domani la riportiamo. Avete
fame, volete una pecora? Ne abbiamo bisogno, la paghiamo. Nessuno si
rifiuta, quassù. Ma voi non avete fatto così: contravvenendo ai patti avete
rubato, avete usato violenza ai nostri amici e ora restituite il tutto e ve ne
andate!
Loro erano
in due gli altri settanta, affamati, disperati, avviliti. Poi Pippo
prese la strada verso il comando e Pelo dietro a lui: fu poco piacevole
passare, dopo una simile scena, in mezzo a due file di uomini (settanta) che
li guardavano scuri in volto. Bastava un colpo di fucile perché tutto fosse
finito. Era anche troppo facile, in quel momento, per quegli
uomini, ucciderli e sparire. E la tentazione, almeno per molti di loro, deve
essere stata grande.
Pippo
continuò a camminare per la sua strada, imperturbabile, e Pelo
tirò un bel sospiro di sollievo quando infilarono il valloncello
successivo e sparirono alla loro vista. Dopo
pochi giorni i settanta se ne andarono.
Pelo confessa: quel giorno ebbe paura!
(...)
La
formazione aveva dovuto lasciare i luoghi nei quali si era formata perché, si
diceva, presto ci sarebbe stato un rastrellamento e loro non erano tanti da
poter resistere e non avevano le armi necessarie. Il comandante aveva deciso
di trasferirsi provvisoriamente in altri luoghi e tornare poi sul posto quando
tutto fosse tornato alla normalità e questo, soprattutto, nella speranza di
riuscire a salvare dalle rappresaglie e conseguenti distruzioni i paesi e i
borghi siti nell’interno della zona.
Il comandante chiamò Pelo e disse:
“Noi
andiamo alla Scaffa ma a me piacerebbe sapere cosa faranno i tedeschi dopo che
ce ne saremo andati.
Allora tu
resti qui, ti fermi qualche giorno e sorvegli i tedeschi. Quando lo ritieni
opportuno vieni alla Scaffa e mi racconti tutto quanto è capitato nella zona.
D’accordo?”
Furono giorni di
angoscia, per Pelo, quelli che egli trascorse da solo, gironzolando per vedere
cosa avrebbero fatto i tedeschi; sempre a breve distanza da loro, quasi a
contatto di gomito.
Era
nascosto fra le pietre del crinale, quando dettero fuoco alla capanna e la
capanna bruciava, allegramente scoppiettando, perché era quella in cui lui
aveva dormito tanto tempo e nel lasciarla aveva nascosto un sacco con un po’
di munizioni sotto la rapazzuola. Ed erano le sue munizioni che esplodevano.
Dovette
arrangiarsi a dormire nel folto della macchia di faggio, tremante dal freddo e
solo, e più volte si trovò davanti i tedeschi e sempre riuscì ad evitarli
per un pelo. Poi un giorno passò dalla Rafanella ed ebbe la ventura di vedere
(una bella sorpresa) un avambraccio che sporgeva dalla terra.
Gli animali
si erano accaniti su quel braccio e lo avevano rosicchiato fino a lasciare
poco più che l’osso, e qualche pezzetto di tessuto strappato dai denti.
Pelo ristette ad osservare e si chiedeva a chi fosse appartenuto,
indubbiamente ad un fascista che la formazione non aveva voluto o potuto
portarsi dietro nel suo trasferimento. Però avrebbero potuto seppellirlo
meglio, un poco più fondo e mettere anche il braccio nella buca e coprire il
tutto di sassi in modo che gli animali non avessero modo di infierire
sul cadavere.
Poi capì:
quei rimasugli di tessuto rimasti intorno al braccio erano brandelli di una
divisa tedesca, il braccio era quanto restava fuori terra di un ufficiale
tedesco fatto prigioniero poco tempo prima. Al momento della partenza per
altre terre il comandante gli aveva detto:
“Signor
tenente (ma Pelo non ricordava il grado) noi dobbiamo andare via, qui non
resta nessuno. E’ ovvio che non possiamo lasciarlo qui libero di riferire ai
suoi camerati i nomi dei nostri informatori e di coloro che ci riforniscono di
viveri o dire quali sono i paesi che ci aiutano. Verrebbero subito fucilati,
lei lo sa bene, e i paesi rasi al suolo. Io non posso assumermi una
responsabilità tanto grande e allora non mi rimane che una scelta: portarlo
con noi. Ma ad una condizione, quella che lei mi dia la sua parola d’onore
di ufficiale che non tenterà di fuggire.
La risposta dell’ufficiale fu ferma e
decisa:
“Io non do la mia parola d’onore a
dei banditi. "
Bisogna
riconoscere che la sua scelta fu eroica. Ed ora egli era li sotto, coperto da
forse venti centimetri di terra.
A Pelo il
compito, ingrato, di seppellire quel braccio e ricoprirlo di terra e posare su
di esso una pesante pietra. Anche se quello sepolto molto frettolosamente alla
Rafanella era un nemico, si era costretti a pensare che era un eroico nemico.
(...)
Dopo lungo
tempo trascorso sui monti nella selvaggia lotta contro il nemico, attendendo
l’alleato che si attardava lungo la strada, finalmente questo era arrivato e
lui aveva potuto conoscere gli americani. Giovanottoni biondi, allegroni,
sempre pronti a menare le mani, un po’ ingenui, forse. Ben vestiti e molto
bene armati.
Sembravano
ignorare buona parte delle regole che governano tutti gli eserciti di questo
mondo e trattavano con familiarità gli ufficiali. Gli pareva addirittura che
la disciplina non fosse il forte di quel esercito. Pelo aveva sempre avuto una
passione per le armi e guardava con viva curiosità quelle delle quali erano
dotati. Belle armi, costruite senza stupide economie, quasi tutte
semiautomatiche: Apprezzava in modo particolare quella che chiamavano la
carabina: un’arma di piccolo calibro, 30, leggerissima, comoda, sicura, con
un caricatore di ben 15 colpi. Leggera, robusta, sicura e precisa: erano
queste le doti che doveva avere una buona arma e la carabina calibro 30 le
aveva tutte.
Poi c’era
il fucile calibro 7.65, semiautomatico, otto colpi, che sembrava essere
assegnato al grosso delle truppe. Ma il suo grande amore divenne presto
l’automatico Browning, il famosissimo B.A.R., venti colpi che era possibile
sparare in una unica raffica o colpo a colpo. Leggero, comodo, potente. Questa
divenne presto la sua arma preferita, quella con la quale andava di pattuglia,
quella con la quale stava di guardia, la sua fedele compagna del tempo
trascorso al fronte.
Negli americani
quello che lo sorprendeva di più era la grande abbondanza di tutto ciò di
cui potevano aver bisogno. Immensi campi trasformati in magazzini e in quei
magazzini file e file di macchine, cannoni, carri armati, autoblinda e
migliaia di casse piene di ogni ben di dio. File senza fine di lucidi, grossi
proiettili da artiglieria, montagne di casse piene di munizioni di tutti i
tipi, per tutte le armi, e poi scarpe, vestiario, vettovagliamento. Tutto! E
tutto in grande quantità.
Ecco, si
diceva Pelo, come si deve combattere! Non come erano stati costretti a
fare lui e tutti i combattenti italiani di quella disgraziata guerra. Scarpe
di finto cuoio (meglio dire cartone), armi risalenti alla preistoria,
disgraziati mandati a combattere in Russia con sulle spalle una mantellina di
cattiva lana e le fasce della stessa lana intorno ai polpacci. Poche munizioni
e bombe a mano di alluminio che servivano solo a spaventare con il chiasso che
facevano. I confronti nascevano spontanei ed inevitabili.
Ripensava a quando l’avevano mandato in un aeroporto della campagna romana
(Pratica di Mare esisteva solo di nome una baracca e una grande distesa di
campi assolutamente deserti. Di aerei nemmeno l’ombra). Dormivano in terra,
su una coperta e per lavarsi dovevano recarsi tutti quanti all’unica
fontanella a forse cinquecento metri dalla baracca e fare una interminabile
coda; una pagnotta e un pezzo di parmigiano per tutto il giorno. Per la verità
c’era anche un’altra cosa: un moschetto con baionetta e due giberne vuote,
(...)
Nelle due case
che costituivano la base del plotone (da quelle case erano partiti la sera del
giorno prima, accompagnati dalla pattuglia) era alloggiata anche una compagnia
di americani. Facevano parte della 92° divisione Bufalo, ed erano quasi tutti
neri. Malgrado il fatto che fosse molto difficile capirsi, se non con
l’intervento dell’interprete, era divertente ed interessante la compagnia
di quegli uomini che avevano risalito combattendo tutta la penisola. Era anche
interessato agli usi di quegli uomini così diversi e dalle abitudini
alimentari altrettanto diverse (speriamo che a casa loro mangino meglio!).
Avevano vitto in abbondanza, anche se, naturalmente, era tutta roba in scatola
e nelle scatole avevano di tutto: carne, formaggio, latte, birra, biscotti e
tutto quanto poteva servire per vivere; godendo anche di tanti piccoli agi che
a loro erano stati sconosciuti. Anche i partigiani ricevevano i
loro scatoloni con le razioni e ne godevano tranquillamente anche se avrebbero
di gran lunga preferito, almeno saltuariamente, una bella polenta con saporite
salsicce.
Le grosse
scatole di robusto cartone, una ogni dieci uomini, contenevano tutto
quello che l’esercito americano prevedeva potesse servire a dieci uomini per
una intera giornata. E c’era di tutto, anche le cose che potevano sembrare
le più strane: dieci scatolette di latte e dieci di marmellata e poi i
biscotti e il burro insomma tutto quello che si poteva presumere potesse
servire per una sostanziosa prima colazione. e poi il necessario per dieci
pranzi e anche per dieci cene. E qualcosa in più per l’eccezionale appetito
di qualche singolo. Ma nella miracolosa scatola c’era molto di più: i dieci
pacchetti di fazzoletti da naso, i dieci pacchetti di carta igienica (Pelo
ripensava alle foglie di faggio e alle rotonde pietre di torrente che aveva
dovuto usare tante volte) e i dieci pacchetti di sigarette e i fiammiferi, e
ancora tante piccole e grandi sorprese. E se la roba nella scatola non era
sufficiente bastava andare in magazzino e chiedere: sbucavano allora le
splendide, saporose bistecche di buona carne e le grosse scatole di prosciutto
o formaggio, insomma tutto quello che uno poteva desiderare.
I militari
americani manifestavano disprezzo per il contenuto di quegli scatoloni del
quale sembravano piuttosto nauseati e Pelo e compagnia non capivano. Ma
bastò poco perché anche in loro nascesse la noia. Il fatto è che avevano
troppo presto dimenticato che pochi mesi prima, per il contenuto di una di
quelle scatole sarebbero stati pronti ad uccidere e ora ce ne era in
abbondanza, anche troppo, e sempre uguale. Carne in scatola, latte in scatola,
biscotti in scatola, formaggio in scatola. Tutti i giorni: a colazione, a
pranzo e a cena. E anche durante la notte, nei turni di guardia. E tutti
i giorni una scatoletta di una specie di minestrone con verdure varie e pezzi
di carne. Ne prendevano dieci, ne rovesciavano il contenuto, arricchito di
qualche pezzo di pane raffermo, se c’era, e di un pezzo o due di lardo, in
un recipiente. Per riscaldarlo. Poi se lo dividevano e mangiavano di
gusto. Ma dopo giorni e giorni di minestrone sempre uguale, anche loro
cominciarono a stancarsi. Allora corsero ai ripari. Bastava infatti partirsi
in due con uno di quei famigerati scatoloni sulle spalle e camminare un po’
verso le retrovie, verso zone più tranquille, che non erano state abbandonate
dai contadini. Per i contadini, era una festa una di quelle
scatole con tutte le buone cose introvabili che contenevano e in cambio
ottenevano farina di grano, o di granoturco, o di castagne e fagioli, o
salsicce o un bel pezzo di lardo rosato, saporito, succulento. E magari
qualche fiasco di vino, sia pure vinello della montagna.
Da quegli
scambi nascevano dei veri e propri festini: polenta e salsicce o polenta e
fagioli, oppure pane e lardo. A volte, più raramente, un bel piatto di
pastasciutta ben condita.
(...)
Il colletto
di Bebbio, il terribile, pauroso colletto di Bebbio: un gruppo di rigogliosi
castagni su una cima tondeggiante, a mille metri di altezza e a duecento metri
dalle case nelle quali aveva la sua sede il plotone. Oltre a, nella casa
accanto, una compagnia americana. Su quel colle sia i partigiani compagni di
Pelo sia gli americani, facevano, rispettando i debiti turni, la guardia. Era
il posto di guardia più avanzato del fronte, in quel settore, e questo ne
avrebbe potuto fare un luogo molto pericoloso. Ma tutto era quasi
sereno, lassù, nelle prime settimane trascorse sul nuovo fronte. I turni di
guardia si succedevano tranquilli: la guardia montante andava su (la potevano
seguire per i circa centocinquanta metri di prato) e dopo dieci minuti la
guardia smontante arrivava alle case. Un turno agli americani, un turno ai
partigiani. Tutto bello, tutto facile.
Poi una sera il dramma;
da dentro la casa si sentirono, improvvise e molto vicine, scariche di mitra e
colpi di fucile. Una sorpresa dei tedeschi e un morto fra i partigiani. Da
allora le cose cambiarono : americani e partigiani si divisero i compiti, agli
uni le pattuglie diurne, agli altri la guardia notturna. Perché era nato il
convincimento che i tedeschi attaccassero il colle solo quando c’erano i
partigiani. Per questo gli americani non volevano fare la guardia notturna con
i partigiani.
Del plotone
faceva parte un giovane biondo, piuttosto basso di statura, sempre sereno e
calmo, imperturbabile. Simpaticissimo! Proveniva dalla montagna ed il suo
mestiere era quello del boscaiolo. Il suo nome era Agostino, abbreviato ed
abbruttito trasformandolo in Gosto.
Quasi
tutti avevano un soprannome o un nome di battaglia e ce ne erano dei più
strani ed inconsueti. Alcuni dicevano chiara la provenienza dell’individuo e
così c’era il Modenese, il Romano, e Lucca, il Sardo, il Fiorentino. Altri
avevano soprannomi che dicevano qualcosa sull’idea politica del soggetto, ed
ecco Garibaldi e Stalin mentre altri ancora facevano preciso riferimento a
caratteristiche fisiche o somatiche: e così Pelo, Bellezza, che era il
più brutto della formazione. Il Piccolo era il più giovane. Altri la
dicevano chiara su certi caratteri: Pelone. Puma, Lampo, Balistite. Forse il
più strano ed inconsueto era Cefas, proveniente dalla abbreviazione e
dall’unione di un nome proprio di persona ,Salvatore, e da quello di una
città, Cefalù.
Chissà
dove, Gosto aveva trovato una fisarmonica, di quelle semplicissime, a sezione
esagonale o forse ottagonale e a volte, seduto su un ciocco di castagno,
contornato dai partigiani e dagli americani, si divertiva a suonarla e loro,
americani e partigiani, si dilettavano ancora più di lui nel sentir suonare e
a guardare le strane, buffissime contorsioni che il suonatore era costretto a
fare. Perché Gosto non sapeva suonare la fisarmonica; giocava soltanto, e si
divertiva strimpellando alla meglio, cercando di mettere insieme una qualche
armonia qualsiasi. Egli si contorceva nello sforzo di creare qualche cosa che
avesse anche una sia pur lontana e vaga somiglianza con una melodia. E le
contorsioni che faceva cercando di seguire le dita sulla tastiera e
contemporaneamente canticchiando erano una cosa da seguire a bocca aperta e
qualche americano che riusciva a distinguere un motivetto qualsiasi, si
metteva a accompagnare il suono battendo ritmicamente le mani. Presto
tutto intorno era una folla di giovani neri e bianchi, tutti in divisa che
saltavano e ballavano battendo le mani a tempo di musica.
Quando Gosto compariva con la sua fisarmonica il divertimento era assicurato.
(...)
Vicende
strane e complesse, avventurose vicissitudini quelle che avevano
portato Pelo a militare in una formazione partigiana, a combattere attivamente
contro i nemici fascisti e tedeschi.
L’8
settembre lo aveva colto a Bologna, dove seguiva un corso di specializzazione
dell’aeronautica militare (I° corso di marconista meccanico). Il comandante
della scuola, il capitano Mastrapasqua, personaggio che ancora Pelo ricorda
con viva ammirazione e tanta, tanta stima, aveva pregato coloro che se la
sentivano di rimanere nella caserma per aiutarlo a distribuire alla
popolazione quanto era giacente nei magazzini e a distruggere le armi e le
munizioni, ché il tutto non cadesse nelle mani dei tedeschi.
Al termine
della bisogna Pelo aveva portato tutto quello che possedeva in una casa vicina
alla caserma, casa nella quale aveva anche potuto lasciare la divisa ed
ottenere in cambio un paio di pantaloni borghesi, con una camicia ed una
maglia. Poi una lunga camminata fino alla prima stazione della linea per
Firenze ed un tranquillo viaggio fina a casa.
Era stato
suo padre a convincerlo, per salvarsi dai grossi guai del momento (“poi
deciderai cosa fare”), della opportunità di arruolarsi quale aggregato
nell’Arma dei Carabinieri (divisa da fante con fascia azzurra al braccio).
Come tale che era stato mandato al “posto fisso” di Ponte Coccia, un paese
le cui case erano sparse ai due lati della strada che correva nel
fondo valle, parallelamente al torrente, allontanandosene solo in
alcuni tratti, quasi a voler lasciare un po’ di
spazio a case e campi.
Uno alla
volta tre dei quattro componenti del “posto fisso” erano stati
trasferiti in altre località o erano comunque andati via ed egli
era rimasto solo. Il maresciallo era lontano, a ben undici
chilometri e Pelo era rimasto solo. SOLO!
Tutta la
responsabilità della strada e dell’ordine pubblico nella zona
era
affidata a lui Una zona piuttosto grande perché comprendeva due
chilometri di case disseminate sullo stradale e quattro
ridenti paesi sparsi sui colli intorno, ma soprattutto
bella, molto bella!
(…)
Spesso,
alla sera, andava a trascorrere qualche ora presso una o
l’altra delle famiglie del posto, scegliendo a seconda dell’umore del
momento.
Il giorno in cui decise di recarsi alla Scaffa per rientrare nella formazione
partì da Foce a Troghi. O Forse da Montefegatesi. Non ricorda. Pioveva e
sotto la pioggia percorse il sentiero verso le Mancinelle, scese al Pian degli
Ontani e risalì il crinale. Pioveva quando giunse alla statale: doveva
ancora attraversare la strada e poi la discesa verso il fondo valle e, ancora,
la lunga risalita sul sentiero che, evitando Rivoreta, lo avrebbe
portato alla grande foce.
Ore ed ore di cammino!
(…)
Arrivò
finalmente alla grande foce sotto il Libro Aperto e poi alla Scaffa. Ma la
Scaffa era deserta, i suoi amici erano partiti già da alcuni giorni e nessuno
sapeva per dove.
Sconsolato,
seduto su di un sasso alla Foce, dopo aver goduto dieci
minuti di riposo, decise di andare verso Fiumalbo. Prese le strade
più alte e presto fu sulle pendici del Cimoncino.
Fiumalbo era sotto di lui. Avvilito, affamato,
stanco, si trovava forse all’altezza della Marginetta del Maiori
quando vide davanti a se e poco più in basso, una casa
solitaria, circondata dai pascoli. Passò un po’ di tempo
osservandola attentamente e tutto quello che vide fu una
donna che, ogni poco, usciva dalla casa e ne rientrava,
indaffarata.
Per il
resto, tutto tranquillo.
Si
avvicinò e bussò alla porta socchiusa; la donna gli aprì: una
donnina che a Pelo sembrò molto vecchia e che
probabilmente non lo era, tutta vestita di nero, come usavano in
montagna e con i capelli raccolti sotto un’ampio fazzoletto. La donna
chiese chi fosse e cosa volesse: “Mi sono perso sui monti, sono stanco
e ho fame e tutto quello che cerco è qualche cosa da mangiare”.
Lo fece entrare ed egli si trovò in un piccolo ingresso: di
fronte la scala che portava al piano superiore, a sinistra una
porta che probabilmente dava nel salotto buono e a destra un’altra
porta che, vide subito, metteva in cucina. C’era un tavolino,
nell’ingresso, e una sedia e la donna gli disse di sedersi.
Poi andò nella cucina e ne ritornò poco dopo con un
pezzo di pane ed un po’ di formaggio, e portò anche da
bere, buona acqua fresca.
Una manna, un
pranzo succulento!
Ma
c’era qualche cosa che non andava come si doveva, nei modi
della donna: l’ospitalità imponeva certi doveri, così come sempre in
montagna e quei doveri dovevano comunque
essere assolti, ma non c’era buona grazia, in lei: lo
tollerava, lo sopportava come si sopporta un malanno capitato quando
meno te lo aspetti. E non faceva niente per nasconderlo.
Mentre egli mangiava cominciò a fare domande: da dove veniva,
dove era diretto, cosa ci faceva così fuori mano,
eccetera, eccetera. Pelo sentiva il malanimo e rispondeva senza smettere
di masticare, cercando di fare più in
fretta che poteva per andarsene al più presto. Poi
gli venne chiesto se conosceva questo o quel posto, questa o quella
persona e ad un certo momento se conosceva la famiglia
delle due sorelle di una delle quali
(quanto era bella) si era segretamente,
perdutamente innamorato. Rispose che si,
la conosceva ed ella rimase per un lungo momento perplessa. Poi gli
rivolse una domanda precisa, diretta: era mica un partigiano? Toccò
a lui rimanere un momento perplesso, poi
decise di rispondere che si, era un partigiano.
“Con chi
sei?"
“Con
Pippo."
Nel
comportamento della donna ci fu
un repentino cambiamento: si avvicinò e tolse di sul
tavolo, bruscamente, il pane e il formaggio. Poi disse:
“Me lo
potevi dire subito. Aspetta qui un momento."
E
sparì in cucina. Pelo, seduto, sorpreso, senza più pane né formaggio,
attendeva gli sviluppi della situazione. Sentiva la donna
che si dava da fare, in cucina e zoccolava su e giù e non capiva cosa
facesse, né capiva cosa fosse successo dentro di lei che le
aveva fatto cambiare atteggiamento tanto bruscamente e aveva
una gran voglia di scappare. Ogni tanto la
donna si affacciava e diceva: “Aspetta”.
Poi
lo fece entrare in cucina. Sorpresa: sul
tavolo apparecchiato c’era un bel piatto di
fumanti tagliatelle e coltello e forchetta e c’era anche un bel
pezzo di pollo arrosto e l’acqua e, questa volta, anche il
fiasco del vino. La guardò sorpreso: cosa significava?
Gli spiegò
in due parole: “Io sono amica dei partigiani, sono dalla vostra parte e
ammiro in modo particolare quelli di Pippo, ne conosco tanti e se tu mi
avessi detto subito chi sei ti avrei accolto in un altro modo. E ora
siediti e mangia tranquillamente”.
Volle
sapere quale era il suo nome di battaglia e, saputolo, disse che aveva
tante volte sentito parlare di lui: fu lei, quel giorno a metterlo
al corrente del fatto che sulla sua testa i tedeschi avevano messo
una bella taglia, ventimila lire, una bella cifretta da dare
in premio, era scritto sui manifesti, “a chiunque fornisca
notizie atte a catturare, vivo o morto il bandito
Pelo”. In italiano e in tedesco.
Un bel
onore, non c’è che dire, ma piuttosto pericoloso: con
ventimila lire, a quel tempo, si poteva comprare
una casetta, o un podere o un bel gregge. Avrebbe dovuto
stare più attento, nell’immediato avvenire.
Mangiò,
bevve e si riposò e stava per ripartire quando la Camilla,
così si chiamava quel angelo di donna, vide in quale stato erano
ridotte le stringhe dei suoi scarponi: pezzi di spago tenuti insieme a
forza di nodi e quasi gli fece violenza, perché volle gli scarponi, in
tutti i modi, e uscì e tornò poco dopo. Lo spago era sparito e al suo
posto c’erano ora due belle stringhe di buona pelle di
cane, robuste, indistruttibili preziose. Le aveva tolte alle
scarpe del figlio, in quel momento fuori con le pecore. Ancora
molti anni dopo la guerra Pelo le usava per
gli scarponi da montagna.
Se ne
andò un po’ commosso. L’ha ricercata, poi, ma la
Camilla era andata in America e lui non l’ha più vista.
(...)
Scendeva
verso il paese; il sentiero tagliava
dritto attraverso i prati, verso una casa poco lontana, poi, Pelo lo
sapeva, correva lungo il lato della casa stessa e
girava bruscamente verso la sinistra per andare a passare fra la casa e
la capanna. Sentiva la necessità impellente di fermarsi un
momento, in un posticino nascosto alla vista di
altri e fu per questo che, arrivato all’altezza
della casa, invece di girare verso la sinistra
seguendo il sentiero, si volse a destra e andò
a nascondersi dietro un mucchio di legna a forse cinquanta metri.
Pochi minuti ed uscì dal suo momentaneo rifugio per riprendere la
sua strada. Fu mentre transitava davanti alla casa, sull’aia in
pietra, che assistette alla strana scena di una donna che usciva di casa
con due sedie, una per mano. La cosa lo colpì e soprattutto
lo colpì lo sguardo della donna, la sua espressione, la
sorpresa evidentemente manifestata, la paura improvvisamente disegnata sul suo
viso. Tanto lo colpirono l’atteggiamento e
l’espressione della donna che, pur conoscendola bene, passò oltre
senza una parola, né una parola pronunciò lei. Ripassò dal posto
poche ore dopo, circospetto e attento, questa volta. Parlò con la donna
e seppe che, mentre egli era nascosto dietro la legna, proprio in
quel momento, era arrivata una pattuglia
di tedeschi, percorrendo il suo stesso sentiero ma in salita e,
arrivati alla casa, erano entrati e si erano messi a perquisirla:
cercavano il bandito Pelo, e sapevano che sarebbe stato
in quella casa. Ecco perché la donna si era spaventata nel vederlo.
Le
chiese il perché delle due sedie, quelle due sedie che forse
lo avevano salvato mettendolo in allarme: ma non c’era un perché,
aveva solo sentito un qualche cosa dentro che la spingeva a prenderle
e portarle fuori. Se ne andò, Pelo, non appena
avute le risposte che cercava: non
voleva che la spia che probabilmente
stava guardandolo facesse in tempo ad avvertire ancora una
volta i tedeschi. La taglia e qualche disonesto che intendeva meritarsela.
(...)
Stava
andando verso S. Michele ed era quasi giunto al ponte, restava
solo da attraversare un vasto prato tutto in discesa e
scoperto e affacciato alla Statale, quando, a forse cento metri da
questa, mise un piede in fallo e cadde
procurandosi una distorsione. Era disteso a terra,
allo scoperto, dolorante e bestemmiante, quando dal
bosco, sulla strada spuntò, appiedato, un plotone di tedeschi. Dovevano
percorrere circa trecento metri prima che egli fosse nuovamente coperto
alla loro visuale e sarebbe bastato che uno solo di loro avesse volto lo
sguardo verso l’alto perché fosse finito. Ma nessuno ci pensò
nemmeno lontanamente: sfilarono sotto di lui, lentamente, carichi di
tutte le loro cose e lentamente, uno dopo l’altro, svanirono
dietro la curva. Nessuno alzò la testa, nessuno guardò in
alto, nel prato, nel bel mezzo del quale giaceva
un partigiano che non sarebbe nemmeno stato in grado di fuggire. Forse
dormivano camminando. E ben venga la distorsione!
(...)
A Fiumalbo
Pelo ritrovò, inaspettatamente e sorprendentemente,
un compagno della sua stessa squadra da lui considerato, e
non era il solo, un buon amico e rivelatosi poi un grande mascalzone. Fu
per colpa sua che la formazione perse in maniera tragica un nuovo compagno, un
bravo ragazzo che era da pochi giorni entrato nella grande avventura e
rimpianto da tutti. Seppe più tardi, Pelo, che i vari furtarelli che
avvenivano nella zona erano opera di lui, Poldo, come lo chiameremo. Non ne
seppe assolutamente nulla fino al momento in cui riuscì a collegare
alcuni fatti.
Pelo visse
alcune avventure con Poldo, prima di rendersi conto di quale individuo si
trattasse. Oh, non stava male con lui! Anzi! Era il
simpaticone che conosceva tutte le barzellette e le sapeva
raccontare e aveva sempre la battuta pronta; era il compagno sempre
pronto allo scherzo, alla risata, alla bevuta in compagnia. Aveva solo
un difetto: aveva l’anima di un delinquente e nessuno sembrava saperlo,
neppure i suoi migliori amici.
Se ne
andarono insieme, un giorno, da Fiumalbo diretti in una qualche
località che Pelo non ricorda, come non ricorda a quale scopo. Per
raggiungere la loro meta dovevano attraversare un
piccolo, piacevole borgo detto La Dogana: non avevano niente con
loro, solo Pelo aveva in tasca la 7,65 di suo padre. E neppure un documento..
Arrivarono
alla Dogana e qui rimasero per un
momento nell’indecisione: si attraversa la borgata o si fa il giro lungo,
evitandola? E' chiaro che il giro lungo era più
sicuro, ma evidentemente quel giorno avevano poca voglia
di camminare e decisero di comune accordo di
attraversare il paese. Si incamminarono. Girarono l’angolo
della casa al di la della quale sapevano essere
la piazzetta e qui il sangue si congelò in tutte le vene e
in tutte le arterie di Pelo: dall’altra parte della piazzetta era sistemato,
a chiudere il passaggio, un drappello di soldati, forse trenta, un
plotone o giù di li e quindici metri prima dei soldati, nel mezzo
della piazza, un gruppetto di ufficiali e sottufficiali. Ormai
erano allo scoperto, i soldati li avevano veduti e a loro non
restava altra via che quella di tentare di passare accanto agli
ufficiali e attraversare il gruppo di soldati. Facile!
Non
ci fu un momento di esitazione in loro, né manifestarono sorpresa o
paura, non ci fu una mossa in meno o in più di quelle che dovevano
fare: di comune, silenzioso accordo proseguirono per la loro
strada. Dentro di lui pur nella più assoluta calma
esteriore, vide nitidamente, in un solo attimo, quanto
sarebbe successo nel suo troppo breve avvenire: gli ufficiali tedeschi li
avrebbero fermati (fra l’altro, in quei momenti, di giovani
in giro non se ne vedevano: erano tutti militari, o prigionieri da
una parte o dall’altra, o erano partigiani) e
avrebbero chiesto i documenti e subito dopo ci sarebbe stato un
processo formale e l’immediata esecuzione. Stranamente il
pensiero che lo angosciò in quei brevi momenti
fu soprattutto: “dove mi fucileranno? Qui, in
questa piazzetta, o su un prato appena fuori dal paese o mi porteranno a
Fiumalbo? O non piuttosto mi avrebbero impiccato ad uno di quei
bei platani?” Pensieri strani che vengono in momenti come quello.
Intanto
continuavano a camminare e il tempo passava con una lentezza
esasperante: erano pochi secondi, sembrarono ore! Aveva alla sua
sinistra Poldo che camminava disinvolto, come lui del resto e, passando,
avrebbe avuto alla sua destra, a forse un metro di distanza, il gruppetto
degli ufficiali. Formavano questi un piccolo cerchio compatto ed uno di loro,
voltava loro le spalle, e stava parlando mentre i soldati già
stavano guardando sorpresi. Ed ecco affacciarsi la fortuna, aiutata
dalla faccia tosta di Poldo e dalle sue conoscenze in un particolare
campo.
Erano ormai alle spalle
dell’ufficiale che stava parlando (ancora ne questi ne
forse un’altro o due li avevano veduti) quando lo
sentirono dire, in italiano, in quel duro,
crudo, gutturale italiano che parlano i tedeschi quando conoscono
solo poche parole della nostra lingua, lo
sentirono dire: “Acqua fresca, vino puro...”. Era arrivato a
questo punto, con un po’ di incertezza e qui
si interruppe: non ricordava il resto del vecchio assioma.
Fu qui che intervennero la prontezza di riflessi e
la sfacciataggine di Poldo il quale fermò Pelo
col braccio destro, gli passò davanti e,
chiesto permesso poggiando leggermente le mani
sulle braccia degli uomini, come a volerli, con tutto il rispetto,
spostare per far posto a lui, completò il dire del tedesco:
“Acqua fresca, vino puro, donna stretta, uomo
duro!”
Ci fu una grande risata fra gli ufficiali, una di
quelle grandi, sonore risate che sanno fare i
tedeschi quando si divertono. E ci furono anche
grandi pacche sulla schiena di Poldo. Poi un
“Buongiorno”. E ripartirono.
I soldati,
che li avevano veduti parlare e ridere con i loro superiori, aprirono un varco
davanti e loro lo attraversarono salutando e furono presto dietro la
casa e ancora prima che quelli avessero il tempo di ripensarci, erano spariti
nel rio e subito dopo nel bosco e una volta nel bosco i
tedeschi non avevano più alcuna speranza di riprenderli. Più
in là, ormai al sicuro, si fermarono a ridere: anche questa volta era
andata bene!
(...)
Una pattuglia della divisione fascista Monterosa, al
fronte davanti a loro, percorreva spesso i sentieri della terra di
nessuno, avvicinandosi nella notte alle linee tenute dagli americani e
dal battaglione nel quale era inquadrato Pelo. Dava noia, quella
pattuglia e un giorno il plotone ricevette
l’ordine di attaccarla e farla prigioniera o distruggerla.
Passarono diverse notti acquattati nel bosco, in
attesa, con la speranza di poterli un giorno sorprendere e farli
prigionieri, tutti. Una mattina all’alba la loro pazienza venne
finalmente premiata: un rumore di passi che si
avvicinavano nella luce fredda, voci sommesse, scalpiccio di
scarponi sui sassi. Poi furono alla loro altezza e venne intimato
loro l’alt.
“Fermi e
mani in alto!"
Voce
stentorea, grido improvviso nell’alba fredda, sorpresa generale,
attimo di sgomento: poi le armi caddero a terra mentre Pelo e gli altri
uscivano dal bosco che li aveva tenuti nascosti e le braccia si alzavano nel
gesto della resa.
Deve
essere brutto esser fatti prigionieri e disarmati in quel modo ed essi,
mentre cominciavano a muoversi con le mani sopra la testa (posizione
scomoda ed umiliante), non brillavano di entusiasmo, non cantavano
allegri, non si scambiavano sorrisi ne vivaci battute.
Sembravano anzi piuttosto mogi, anche
se, probabilmente, il loro più vivo desiderio era
stato proprio quello di essere fatti prigionieri e di veder
così conclusa la triste avventura. Neppure i partigiani cantavano, per non
fare chiasso, ma per loro era stata una soddisfazione
fare trenta prigionieri in un solo colpo e,
soprattutto, senza un solo ferito.
Pelo era in testa alla lunga
fila e fu preso dalla la curiosità di vedere come erano fatti, quali
facce avevano i prigionieri: si fermò da un lato del
sentiero e li guardava mentre gli sfilavano davanti. Ragazzi, giovani imberbi,
non facce da guerrieri, ma piuttosto, in generale,
facce da ragazzi che avevano ancora bisogno della mamma,
smarriti, ignari e un po' spaventati dal pensiero del destino che li
attendeva, camminavano frettolosamente nella luce fredda del
giorno appena nato. Giorno fortunato per noi e, in fondo, anche per
loro. Li guardava uno per uno: non cercava qualche cosa di
particolare, era solo curioso. Poi vide una faccia conosciuta o
che tale gli sembrò. Due lunghi passi, lo raggiunse e lo tirò da
una parte:
“Il Bove!"
“Pelo!"
Una bella sorpresa: il Bove in divisa fascista, il Bove con
la divisione Monterosa, ora prigioniero , con le braccia
sulla testa, umiliato e doppiamente sorpreso.
Pelo lasciò passare tutto il resto della
colonna e lo condusse poi con se e ebbero il
tempo di fare quattro chiacchiere sottovoce, di
esternare la loro reciproca meraviglia per il fatto
assolutamente straordinario che era capitato.
Gli raccontò, molto brevemente, quanto gli era successo in quel lungo periodo
e Pelo ebbe il modo di fare a lui il suo
succinto racconto. Parlarono anche della fortuna che aveva
voluto che egli fosse fatto prigioniero da una pattuglia
nella quale si trovava un vecchio amico, perché forse questo avrebbe potuto
evitargli il campo di concentramento che era il destino più prossimo di
tutti i prigionieri. Anche lui faceva parte di quella grande schiera di
giovani che si erano trovati costretti a prendere una
decisione che poteva essere fatale ed aveva preso, come molti altri, la
strada sbagliata.
Arrivarono al comando, dove vennero accolti come si
conviene a chi rientra con trenta prigionieri (trenta poveri ragazzi
uguali a loro in tutto e per tutto, a parte la divisa), sia pure trenta
poveri, impauriti fascisti: ma non era cosa di tutti i
giorni. Poi andò a parlare con Pippo. Gli raccontò la storia della sua lunga
amicizia col Bove, e degli anni passati insieme alla scuola e dopo la scuola e
Pippo lo ascoltava concentrato e attento come sempre (non aveva più
bisogno, ora, di tenere le mani infilate nella cintura
dei pantaloni per la scabbia e per i pidocchi). Cogitò un breve
momento, poi disse:
“Cerca di trovargli un vestito borghese, poi
fatti dare un po’ di soldi per lui e lascialo andare."
Gli trovò i vestiti e gli fece dare i soldi e si
salutarono come si fa fra vecchi amici.
Poi il Bove prese la sua strada e sparì!
(...)
Pelo, era
il periodo della clandestinità, venne un giorno chiamato dal comandante che
gli affidò un inconsueto incarico. Si trattava di andare dal grosso
commerciante sullo stradale e chiedergli se era disposto a cedere
momentaneamente qualche mulo. Andò, Pelo ed il commerciante gli
disse che di muli, li, sul posto, non ne aveva: i tedeschi li
avrebbero portati via subito. Li aveva divisi in
piccoli gruppi, distribuiti in varie località,
nascosti nei boschi, sui monti e gli insegnò dove trovarne alcuni, tre
muli ed un cavallo. Li poteva prendere e portare via, a condizione che
un giorno tornassero e in buone condizioni.
Si
recò sul posto indicato (quattro ore di cammino) e dopo
brevi ricerche trovò quanto andava cercando. Pelo, uomo della
città, non aveva alcuna pratica di muli, ne di cavalli, non era
mai stato su una sella, solo qualche volta aveva dovuto
salire sul basto di un mulo e ancora oggi si chiede
perché un simile incarico fosse stato affidato
a lui, quando nella formazione erano molti gli uomini
pratici. Forse la ragione poteva risiedere nel fatto che egli
conosceva bene il padrone dei muli? Tornando alle sue esperienze in
materia, egli poteva solo assicurare che, per chi non ha dimestichezza con
cose simili , lo stare seduto sul basto di un mulo, su per una
mulattiera, magari aspra, con tratti pianeggianti e comodi
alternati a brevi tratti in ripida salita, non è per
niente piacevole. Il mulo va, se non viene spronato,
del suo passo tranquillo fino a quando la strada è
pianeggiante, ma quando arriva alla salita, se la salita è
breve e dura, la affronta di corsa accelerando improvvisamente il passo.
E chi
come lui maldestro, non abituato, si trova lassù, in alto,
seduto su quello scomodo, duro, dondolante sedile,
si aggrappa disperatamente a quello che trova, sia una
correggia, una corda o un semplice buco nell’ossatura del basto e
aspetta, terrificato, che il mulo riprenda l’andatura consueta. Non basta:
il mulo, animale nato per la montagna, sa bene come cavarsela su una
ripida salita, specialmente se la mulattiera è ampia
e consente certe manovre. Allora va da una parte
all’altra, in cerca della strada più agevole, anche
se, nella sua ricerca della pendenza minima, è
costretto a posare lo zoccolo proprio sul bordo della mulattiera,
a cinque centimetri dal precipizio.
Si accinse
alla manovra, per lui affatto nuova, di prendere quei muli, fra
l’altro totalmente mancanti di ogni bardatura: ma la cosa si rivelò
molto più difficile di quanto avesse supposto. Dopo corse affannose nel
bosco (ma perché c’era andato da solo?), spesso vicino a
prendersi una coppiola nel ventre, stanco, sudato,
sfinito, stremato imbestialito con gli animali e con se stesso, era al
punto di partenza e stava per arrendersi quando il cavallo colse la sua
attenzione. Stava, il cavallo, in un angolo, tranquillamente intento a
brucare, ne mai, si sovvenne, si era mosso durante la sua
disperata caccia ai muli. Doveva essere una bestia socievole. Si
avvicino alla bestia e quella non si mosse. Lo prese per la
criniera e lo guidò, lo spinse più dolcemente possibile
verso un poggio li vicino perché aveva bisogno, per poter salire
sulla sua groppa, di un poggio all’altezza giusta. L’animale obbedì
docilmente e docilmente, fermo accanto al poggio,
si lasciò montare. Mi contenterò del cavallo, si disse Pelo e cercò
di indirizzarlo verso la strada da seguire, un po’ tirando
da una parte, un po’ spingendo dall’altra. Meraviglia: i
tre muli seguivano tranquillamente! Probabilmente erano da molto
abituati a stare insieme e la bestia era stata lui (si disse) che non aveva
pensato ad una soluzione che era invece nata da sola, così, semplicemente.
Era una bestia tranquilla, quel cavallo, e sopportava il peso (per
poco che fosse, con la fame che soffriva)
senza infastidirsi, anzi sembrava quasi capire che lui, lassù in
alto, era terrorizzato e se ne stava buono buono in mezzo alla strada,
andando di un passo sempre uguale, senza scosse ne sussulti. E i tre
muli, bestiacce maledette, seguivano docilmente. Fu così che riuscì ad
arrivare al comando dove lo accolsero con entusiasmo. Sapeva benissimo
che l’accoglienza festosa era dovuta all’arrivo dei quattro
preziosi animali e non al suo ritorno, ma se avessero saputo
cosa aveva passato avrebbero dovuto accoglierli con i
fuochi artificiali.
Pelo non
sa che fine fecero due di quei muli, spera che
il padrone li abbia riavuti e in buone condizioni. Conosce invece la sorte
del cavallo e quella dell’altro mulo. Per il cavallo
è presto detto: un giorno, carico di non ricorda cosa,
mise un piede in fallo, compì un volo di alcune decine di
metri e si sfracellò sulle rocce. Gli par di
ricordare, ma non ne è sicuro, che per un certo periodo di
tempo mangiarono dolce, dura, tigliosa carne di
cavallo cucinata in tutti i modi possibili.
Il
mulo invece ebbe una storia più travagliata e, se evitò
grosse fatiche portando per pesanti carichi, causò anche un
mare di guai. Era una bestia più grossa della norma, fortissima
e dotata di un carattere aspro, duro, ribelle. Il
primo che si provò a cavalcarlo fu Omero, pastore di forse trenta
anni, uomo dal fisico massiccio e dal temperamento forte
e poco paziente. Fu un vero spettacolo assistere al primo scontro
fra quel uomo duro e il suo duro avversario. Il mulo era un vero bastardo, più
bastardo di quanto lo siano tutti i muli (figli di
asino e di cavalla): mordeva e scalciava davanti e
dietro, colpi terribili che se avessero preso un
uomo in pieno petto lo avrebbero sfondato. Omero si
provò più volte a mettergli il basto, ma non c’era
verso: ogni volta che il mulo sentiva il peso
sulla schiena andava su tutte le furie, una scarica breve ma di una
violenza terrificante. Ma Omero era più duro del mulo e sapeva come
fare: lo prese per la cavezza, questa il mulo l’aveva
accettata senza eccessive proteste, e lo portò vicino
ad un castagno al quale lo legò tanto strettamente da
lasciarlo libero di scalciare solo con le zampe posteriori; poi
gli pose una coperta sulla testa, fermandola bene, in modo
da impedirgli di vedere. Non fu tutto così facile come può sembrare
raccontandolo, ma infine il mulo si trovò come Omero lo voleva e fu
allora che egli si accinse, con l’aiuto di Pelo, al
difficile compito di mettergli il basto.
Era una
manovra pericolosa: dovevano, stando uno da una parte uno
dall’altra, sollevare il basto, farglielo passare
sopra il posteriore senza toccarlo e poi
calarglielo improvvisamente sulla schiena. Qui
succedeva il finimondo e ci vollero il coraggio e la bravura e la
sveltezza di Omero per mettergli in un momento il sottopancia e il
pettorale. Poi l’animale tornava alla calma, si arrendeva.
Il più era fatto: si trattava solo, ora, di montarlo. Cosa difficile perché
la bestia, quando sentiva il carico sulla schiena si abbandonava a furiose
scariche di calci e morsi.
Ma, a
parte questi piccoli difetti, era una bella bestia, fortissima
e servì molto fino al momento in cui un uomo più nervoso degli
altri e stanco di caricare cassette di
munizioni per vedersele immediatamente gettare a
terra, mise fuori la pistola e lo uccise con un colpo nella testa!
(...)
Se un
giorno vi capitasse di dover salire da Montecatini la strada che
porta alla Femmina Morta e poi a Prunetta, se un
giorno vi capitasse di dover percorrere quella alta strada, fermatevi un
momento, sul crinale, poco dopo la Femmina Morta. Scegliete un
punto dal quale la vista possa spaziare liberamente sulla vostra
sinistra, verso nord-ovest.
Vedrete
la Penna di Lucchio, il Memoriante, il
Prato Fiorito, l’Alpe di Limano, l’inconfondibile Balzo Nero, sostenuto
dai tetti di Vico Pancellorum e poi il Cimo, il Caligi e, più a
destra il Libro Aperto e il Corno alle Scale.
Ma non vi
lasciate distrarre dallo spettacolo: guardate su, davanti a voi, il monte più
alto di tutti, quasi sulla verticale del Balzo Nero e immaginate di scendere
lungo quel crinale percorrendolo verso destra. Poco dopo incontrerete quella
che, vista da dove vi trovate, può sembrare solo una tacca, una piccola
spaccatura, una V non molto profonda ma tuttavia ben definita.
Quella è
la Foce di Campolino
di A.
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