SALVI.. PER UN PELO! |
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Partimmo di primo mattino, diretti a Rivoreta attraverso la Marginetta
del Maiori. La salita
era aspra. Sulla spalla sinistra avevo
una vecchia giacca e dietro, un paio di
scarponi militari
inglesi: neri, pesanti,
inconfondibili. Le stringhe
degli scarponi mi passavano
sulla spalla e
attaccato alle stringhe,
davanti, sul
petto, c’era
un pacchetto
di medicinali, inglesi
anche questi, caduti dal cielo insieme agli
scarponi.
Roba preziosa
ma estremamente
pericolosa: poteva
bastare molto meno per essere
passati per le armi. Nella tasca avevo la
pistola, mentre Massimo era disarmato.
Avevamo scelto questo piccolo, duro sentiero evitando la normale
mulattiera perché sapevamo che l’intera zona
era attentamente sorvegliata. Silenziosi per quanto ci
era possibile, con
le orecchie tese a cogliere ogni rumore che non fosse in sintonia con
quanto ci circondava, gli occhi attenti, a
momenti sulla
strada, a momenti sul paesaggio con
la speranza di riuscire a vedere in tempo un indizio della
presenza del nemico, camminavamo. Eravamo
ormai giunti abbastanza in alto, a forse due
terzi del cammino per la
Marginetta, quando ci trovammo sul bordo
di una radura, un grande pascolo, completamente
circondato dalla fitta
macchia di faggio: una zona assolutamente priva di alberi e molto esposta. Il
sentiero la attraversava dal basso in alto, nel senso
della massima pendenza e
tutto allo scoperto.
Stemmo per un po’ a guardare quella radura. Non ci piaceva e tenemmo
un piccolo conciliabolo: la attraversiamo o ne seguiamo il bordo
tenendoci al coperto? La mia innata prudenza consigliava di fare un lungo giro
evitando il prato, Massimo voleva
invece continuare a
seguire il sentiero. Massimo insisteva e fu così che decidemmo
di attraversare direttamente il pascolo seguendo il sentiero. Uscimmo
allo scoperto e ci incamminammo: la salita non era ripida come nel bosco e si
camminava su un morbido tappeto verde. Ci guardavamo intorno ma tutto
continuava ad andar bene, niente in vista.
Niente in vista!
Eravamo a circa metà del pascolo quando un acuto fischio
ci bloccò (mi
fece paura quel fischio), proveniente dalla nostra destra: su un
piccolo colle a forse cento metri
da noi tre tedeschi ci tenevano sotto la mira delle loro armi. Uno di loro ci
fece cenno di fermarci e di attenderlo e si incamminò verso di noi con uno
dei compagni. L’altro era sul colle e ci
teneva di mira.
Cosa facciamo? Aspettiamo e speriamo che tutto vada
bene o ci buttiamo a rompicollo giù per prato?
Aspettammo sul posto, il pacchetto dei medicinali bene in vista sul
petto, la pistola in tasca, senza
sicura, pronta all’uso. Uno sarebbe morto, poi si vedrà. Giunsero
fino a noi, i due e solo
allora scese il terzo; erano
prudenti e non volevano lasciarsi sfuggire la preda. Quando furono davanti a
noi ed uno, un tenente, ebbe messo in spalla
il suo mitra
imitato da uno dei soldati mentre il terzo
(solito biondo tedesco) ci
teneva di mira col suo fucile,
cominciò l’interrogatorio. Non
so per quale strana ragione Massimo, sempre così pronto alle battute, se ne
stette zitto, non pronunziò una parola: forse l’istinto gli diceva che se
era uno solo a parlare era
più difficile cadere in
equivoci o in
contraddizioni. L’ufficiale parlava abbastanza bene l’italiano,
quel tanto che bastava per capire e farsi capire e questa fu una grande
fortuna, per noi. Furono
rivolte a me, le domande ed io, che non riesco
a dire una
bugia senza diventare rosso come un peperone rosso, rispondevo calmo,
sicuro e tranquillo e
probabilmente anche questo dette una mano alla fortuna. Domandava:
“Chi
siete?"
“Fammi un piacere: metti
a posto questa giacca che cade e mi dà noia.
Massimo capì a volo quale
era il mio intendimento e, fattosi
dietro a me, avvolse meglio che
poté gli scarponi nella giacca.
Intanto continuavo
a rispondere alle domande che
mi venivano rivolte
e ad un certo punto venne fuori quella che forse
temevo di più:
“Cosa avete in quel
pacco?
“Medicinali”, risposi
e d’altra
parte cosa
mai poteva esserci in un
pacchetto ben squadrato e accuratamente legato con lo spago? Medicinali!
Fabbricai sul momento una spiegazione e, senza attendere l’altra inevitabile
domanda, dissi:
“A Rivoreta non ci sono
medicine: noi le
compriamo a Fiumalbo e le
rivendiamo e ci guadagniamo qualche soldo.
La risposta dovette
sembrare convincente perché
dei medicinali non si parlò più. “Perché passate da qui?"
“Perché abbiamo
le pecore a Rivoreta ma di casa stiamo
a Fiumalbo e spesso facciamo questa strada.
Continuò ancora un poco
con domande varie, il tedesco, poi
ci chiese i documenti: guardò
attentamente quello di Massimo
poi prese il
mio e si mise a leggere ad
alta voce
quanto c’era scritto
ed io,
rimasi di sasso
quando sentii
la voce
che scandiva:
“Professione: impiegato.
Imbecille, stupido idiota:
non avevo badato al dettaglio!
IMPIEGATO! Ma cosa mai poteva farci un IMPIEGATO sui
monti, a due
passi dall’Abetone, a
brevissima distanza
dal comando generale di
Kesselring?
Ma chi
aveva avuto la grande, geniale idea
di scrivere, rispondendo
alla domanda,
professione IMPIEGATO.
Che professione assurda, improbabile, pazzesca per un giovane PASTORE
di Fiumalbo che va in giro sui monti! Ma il tedesco passò oltre:
probabilmente non conosceva tanto la nostra lingua da distinguere la
differenza fra
pastore e impiegato e non
notò l’umorismo della situazione, l’impossibilità della cosa, la
contraddizione con quanto gli era stato detto poco prima.
Finì l’interrogatorio e i tre tedeschi si sedettero
su un poggiolo
e anche Massimo si sedette mentre io rimasi in piedi
(mi costringeva a stare in
piedi il pensiero della pistola e quello
degli scarponi). Ebbe inizio una lunga chiacchierata fra noi tre, io,
Massimo e l’ufficiale; gli altri due non parlavano una
parola di italiano e solo
raramente chiedevano qualche cosa nella loro
lingua al tenente: parlammo della guerra, di come stava andando e di quando
sarebbe finita. Ad un certo punto dissi:
“Noi facciamo spesso
questa strada e non abbiamo mai trovato nessuno, come mai oggi siete quassù?
Quando udii la risposta il
mio cuore si vuotò di tutto
il sangue che conteneva e
provai la strana sensazione di sentire i
testicoli che si ritiravano nel ventre:
“Stiamo cercando due banditi: Pelo e Massimo.
Pelo e
Massimo? Mai
sentiti nominare,
completamente sconosciuti!
Poi si misero a parlare
nella loro dura, gutturale lingua ed io cominciavo
a stare sulle spine. Non
capivo una
parola di quello
che si dicevano ma era evidente che stavano
parlando di noi, indecisi,
forse, e io attendevo il momento giusto,
sempre con la mano in tasca
sulla pistola pronta a sparare. Non avevo alcuna voglia di finire impiccato
con un gancio da macellaio infilato nella gola, io, dopo aver magari
subito un interrogatorio a
base di bastonate. Meglio, molto meglio, morire di pallottole in mezzo
a quel verde prato assolato. La
nostra silenziosa attesa
durò a lungo, molto a
lungo: minuti che sembravano anni, interminabili secoli di tormento.
Durò fino al momento in cui trovai dentro di me il
coraggio di chiedere:
“Se tutto è in regola, signor tenente, possiamo andare?"
Finalmente riprendemmo il nostro andare attraverso il
vasto pascolo, diretti al bosco protettore, lontanissimo: un oceano
ci divideva dai primi
alberi, un verde oceano tutto in salita,
al cui confine superiore,
rappresentata da una cupa striscia verde
scuro, c’era la salvezza. La salita sembrava più aspra, ora, per il
tremolio fitto che aveva invaso
le mie gambe e che non
riuscivo a dominare, un tremolio del quale conoscevo la causa: era la paura
per il trascorso pericolo che ora stava prendendo il sopravvento, ora che
l’azione sembrava terminata e dopo che tanto a
lungo ero riuscito a tenerla nascosta nel profondo. Ma
anche la dura, interminabile salita allo scoperto,
sotto gli occhi dei tre rimasti nella radura, ebbe finalmente termine.
Massimo si
fermò, si volse verso i tre tedeschi e
fece col braccio un ampio
gesto di saluto. Io lo presi per un
gesto di scherno. Poi
sparimmo fra gli alberi. Salvi! (...) Vi
ricordate la fiammeggiante, rumorosa mattina di Sommocolonia? Era il 26
dicembre 1944: tedeschi e fascisti attaccarono di sorpresa, alle sei del
mattino. Erano alcune centinaia e i nostri erano 50 ma
si difesero molto bene. Rimasero sul terreno, quella mattina, 25 compagni, ma
furono uccisi circa 75 nemici. Io
non c’ero: mi ero sentito male non molto tempo prima e avevo chiesto qualche
giorno di licenza; così mentre si combatteva lungo i vicoli del paese, io ero
nel mio letto che dormivo tranquillamente.
Un male strano, il mio di quei giorni; non stavo male fisicamente. Il
mio malessere era tutto morale, psichico,: in realtà avevo subito un trauma
psicologico del quale risentivo duramente. E dal quale non riuscivo a
riprendermi. Era nato quel triste mattino in cui un tedesco, con un colpo di
fucile ben indirizzato, aveva ucciso il compagno che con me era stato di
guardia per tutta una notte in quel pascolo sopra la Vetricia. Pensavo e
ripensavo all’episodio: avevo perso il sonno e bastava un nonnulla per farmi
fare un sobbalzo. Pippo
mi mandò a casa per un breve periodo di riposo. Si sperava potesse bastare
per rimettermi in sesto. E’ per questo che quella mattina non c'ero. Ed
è stato un grosso dispiacere. A
parte il fatto che, con la mia presenza, avrei potuto dare un piccolo
contributo alla difesa, sarebbe stata per me, quella, una prova di una certa
consistenza. Le occasioni per prove di quel genere, non erano certo mancate,
nel passato, e mi ero sempre comportato in maniera decorosa: ma quella era
diversa dalle altre. Ed io l’ho mancata. Loro
l’hanno vissuta tutta: hanno vissuto il trauma del risveglio improvviso
sotto l’attacco di qualche centinaio di nemici; si sono ritirati insieme
agli altri combattendo di strada in strada e poi di castagno in castagno. Si
sono comportati onorevolmente! Ed io non c’ero! Io ero a letto e
ancora dormivo nel calduccio. Poi seppi quanto era successo: raccolsi la mia roba e ripresi la strada del fronte.
Quel giorno non avevo
voglia di farmi a piedi i 40
chilometri che mi dividevano da loro ed allora mi
misi sul bordo della strada
a chiedere
un passaggio. Si fermò un grosso autocarro americano la cui cabina era
già occupata: l’autista mi fece segno di arrampicarmi sul cassone.
Mi arrampicai e rimasi di
sasso: l’autocarro, scoperto, era
pieno fino alle sponde di grossi proiettili da artiglieria, lucido
ottone e grigio acciaio, e
l’ottone e
l’acciaio pieni
di esplosivo e freddi, gelidi, nel gelido inverno di quel anno
E' evidente che le loro spolette non erano innescate, ma non fa’ una
bella impressione
sedere su
di un
carico di
esplosivo, specialmente se
si scopre subito che l’autista,
bravo quanto volete, è un
po’ impetuoso! Tanto che alla prima curva con l’asfalto ricoperto da un
sottile strato di ghiaccio, il mezzo si pose di traverso e di traverso
percorse diverse
diecine di metri,
per andare
poi a fermarsi dolcemente, col fianco contro un albero!
Io, impietrito
dal terrore, ghiacciato dalla paura
e dal freddo, non trovai
nemmeno il coraggio di saltare giù e impavido
rimasi seduto
sul gelido carico fino in fondo al
lungo, travagliato viaggio. In
quelle lunghe, dure, nottate di guardia in genere ci mettevamo seduti in
terra, la schiena appoggiata ad un castagno, uno volto da una parte, uno
dall’altra. Di traverso, sulle cosce tenevo
l’arma preferita: il Browning
automatico, 20 colpi, calibro 7.65. E una distesa di bombe a mano tutto
intorno. Erano
ore di tensione, di pressione. E non facevamo alcune ore di guardia per poi
avere il cambio. Troppo pericoloso: significava indicare ai tedeschi, spesso
in agguato, quale era la posizione precisa delle guardie. Andavamo
su all’imbrunire, accompagnati da una pattuglia, ci preparavamo per la notte
mentre gli altri esploravano tutto intorno e poi restavamo soli, per tutta la
notte. Un
lieve rumore a destra, rumore che le nostre armi
accompagnavano nel buio. Probabilmente una foglia cadente. Un fruscio a
sinistra. Chissà da cosa provocato? Una
notte uno di noi sparò ad un fruscio: al mattino trovammo una pecora morta. Si
fosse ancora in tempo di guerra e osassi raccontare che una notte mi sono
addormentato, finirei certamente davanti al tribunale militare. E’ un fatto
che eravamo sfiniti. Mi
assopii, quella notte, seduto, con la schiena appoggiata al castagno, l’arma
sulle gambe. Quando mi svegliai ero a forse tre metri da Antonio (...) e
(...) stava gridando “Sono Antonio!”. Io avevo il dito sul
grilletto. Forse ancora due secondi e avrei sparato. E ucciso un amico. Sonnambulo.
La tensione mi aveva fatto diventare un sonnambulo. Sempre
a Bebbio, il Sardo (quello che i tedeschi avevano fatto finta di fucilare per
dare una lezione ai suoi camerati e che poi era fuggito e venuto da noi) una
notte si svegliò gridando: “I tedeschi!”. Corse al tavolo col pugnale in
mano e lo piantò nel legno per alcuni centimetri. Io,
che di solito dormivo sul tavolo, era più caldo del pavimento, quella notte
mi ero coricato in terra, sotto il
tavolo. Le bella dea di Preneste che sempre era al mio fianco, mi aveva
avvertito (...)! (...). Anche
Torello diventò sonnambulo, a Bebbio. Ed una notte, giù nella valle, dove i
tedeschi erano poco sopra a noi e avrebbero potuto, volendo, prenderci a
sassate, Torello si levò gridando, prese il browning e corse fuori. Forse
avrebbe ucciso qualcuna delle nostre guardie, se non lo avessimo fermato in
tempo. Solo
i morti non hanno paura. Non ricordo dove ho sentito questa battuta, ma mi è
piaciuta! Oh,
la vita non era monotona, a Bebbio e paraggi. Era venuta a mancare la lotta
per il pane quotidiano (a questo ora ci pensavano gli americani) ma
continuava aspra la guerra. Pattuglie verso il nemico di giorno, guardia di
notte. Ogni
tanto c’era anche da divertirsi: con Gostino, per esempio, con la sua
fisarmonica e c’erano gli americani che lo accompagnavano battendo le mani.
E ogni tanto una sgambata verso la bella cittadina. Due
ore di cammino per scendere, quasi tre per salire. Di sassosa mulattiera. Da
percorrere con attenzione perché anche lungo il primo tratto del sentiero non
era da escludere la sorpresa di una pattuglia nemica. Era
molto giovane e non so da dove venisse. Era
arrivato e l’avevano
aggregato al
mio plotone. Ebbe sfortuna
perché proprio quel giorno il plotone dovette andare a sistemarsi su di un
colle molto esposto, il monte
Specchione, sito nel bel mezzo della
terra di nessuno.
Nel viaggio di
avvicinamento (forse quattro ore
di cammino) subimmo un
bombardamento con
mortai che si accanì
particolarmente quando venne
il momento
di attraversare il torrente, largo,
in quel punto,
forse sessanta,
settanta metri.
Ci contammo e scoprimmo che mancava il
ragazzo giunto in
forza proprio quel mattino. Stai a vedere
che hanno preso proprio
lui! Restava da fare solo una cosa: riattraversare
il torrente alla sua ricerca e la bisogna toccò a me. Altra corsa allo
scoperto, sotto
il continuo piovere
dei proiettili
di mortaio che
cadevano tutto intorno, ma il ragazzo
non giaceva ferito
nel torrente. Giunsi
alla casa e fu li che lo
trovai, nascosto nella gora del mulino, pallido e tremante e fu solo
dopo alcuni urlacci
accompagnati da qualche scarica di
moccoli (il tutto
volto ad infondergli un po’ di coraggio) che, un po’
spinto un po’ tirato, riuscii a compiere l’impresa di fargli
attraversare il torrente. Era
chiaro: il nuovo arrivo non era un buon acquisto!
Arrivammo sulla vetta del colle e ci sistemammo dalla parte
nascosta al nemico.
Ho
parlato di
posizione esposta:
i proiettili
di artiglieria che gli americani lanciavano ai tedeschi e quelli che i
tedeschi spedivano verso gli americani, passavano poco sopra le nostre
teste. Si aveva netta
l’impressione che, mettendosi
in piedi e
alzando le braccia, avremmo
potuto afferrarli!
Poco simpatico!
Fu
in quella situazione che il
nuovo arrivato
dimostrò tutto il suo coraggio e lo faceva lagnandosi e piagnucolando.
Era una cosa
demoralizzante, scoraggiante,
snervante e
venne il momento
in cui,
per la pace di
tutti, dovemmo
deciderci a disfarcene.
“La
cosa è più facile di quanto ti possa sembrare: vai
in quella direzione,
attraversa la valle e sali sul crinale,
poi attraversa la
valle dopo e poi ancora un’altra.
Troverai una strada, la
segui e sei in salvo.”
Non fu una cosa facile
spedirlo, da solo, verso la pace
delle retrovie: dovemmo forzarlo fino a minacciarlo con le armi e fu solo
allora che, piangente, ci lasciò.
Lo ritrovai,
alcuni mesi dopo, ed ebbi
la sorpresa
di sentirlo, nei confronti degli astanti, piuttosto soddisfatto
per il suo comportamento al fronte!
In
una casa nella
terra di nessuno
c’era una spia, un fascista
che, profittando della conoscenza
dei luoghi e della posizione della
casa nella quale abitava, teneva
d’occhio la zona e riferiva ai
tedeschi tutti i nostri movimenti.
Avemmo l’ordine di andare
a prendere quella spia.
Ci fu
un breve
scontro con una
pattuglia tedesca,
gli americani ci presero a cannonate per errore (l’elmetto che mi
proteggeva la testa conserva il ricordo di quel errore),
poi giungemmo alla
casa, la
circondammo e bussammo alla porta.
Vennero ad aprire
due anziane signore impaurite alle
quali chiedemmo del signore
che stavamo cercando.
Ci fu risposto
che non c’era, ma noi non potevamo fidarci della
parola delle due donne e
dovemmo perciò perquisire tutta la casa.
Nulla e nessuno!
La casa, a parte le due donne che si
ostinavano a ripeterci
che l’uomo
in questione non c’era e non
c’era mai stato, era
vuota. Stavamo
facendo le nostre scuse alle due donne, quando uno di noi notò qualche cosa
di strano nella posizione di un
mobile nella cucina: sembrava troppo spesso, troppo profondo. Venne rimosso e
dietro, sorpresa, il nostro eroe, la spia che stavamo cercando e, sorpresa
nella sorpresa, la spia era un tizio di Lucca,
un personaggio
molto conosciuto.
Il pensiero che questo uomo fosse una
spia mi fece ridere perché ritengo che per fare quel brutto mestiere
sia necessario possedere: un po’
di coraggio. Dote che
mancava completamente nell’individuo
in questione,
un chiacchierone
imbelle, un
pavido buono solo a
raccontare mirabilia
di se stesso, ma
assolutamente innocuo, un buono a nulla. Non credo che avrebbe
mai potuto trovare in se stesso la forza necessaria
per fare qualche
cosa che richiedesse
iniziativa, un
minimo di coraggio, una
motivazione, una qualsiasi spinta.
Lo prelevammo e lo portammo al nostro comando e Pippo
seppe che io lo conoscevo
e mi mandò a chiamare e gli dissi
che sì, l’uomo in
questione era fascista, ma gli dissi anche tutto quello che
pensavo di
lui. L’uomo
fu immediatamente
sottoposto a stringente
interrogatorio da
parte della
nostra polizia,
giudicato innocuo e rilasciato. L’episodio
ebbe un divertente seguito.
Era trascorso un anno o
forse due, quando una sera
entrai nel vecchio
bar Savoia, ora purtroppo chiuso, che
frequentavo, anche se non
assiduamente e nel quale ero piuttosto conosciuto.
Quella sera c’era un gruppetto di persone, nel centro del salone, e
tutti stavano
ascoltando un tizio che, con
toni accesi, stava raccontando qualche sua avventura.
Incuriosito, mi
avvicinai e rimasi a
bocca aperta:
nel centro del
gruppo c’era la spia, l’uomo che
eravamo andati
a prendere nella
terra di nessuno, che
stava raccontando
al suo piccolo e attento
pubblico cosa gli era accaduto un certo giorno. “Io
ero solo e avevo un vecchio fucile e con quello
correvo come un matto da
una finestra all’altra e sparavo, sparavo e
mi difendevo come
un leone. Ma loro erano in troppi e
alla fine ebbero
la meglio
e mi portarono davanti al
loro comandante, davanti
a Pippo in persona. Oh,
anche a lui seppi
dire tutto quello
che dovevo e gliene dissi tante e poi tante,
gridando e urlando
e citando tutte le mie conoscenze, che lo spaventai,
lo spaventai tanto che mi dovette lasciare. Non
posso che limitarmi al
breve riassunto di
quanto il tizio
in questione
raccontò quella
sera, infiorettando
il racconto, coprendolo
di colori vari e vistosi.
Poi venne
il momento in
cui chiesi permesso a
quanti mi erano
davanti ed avanzai
fino a quando mi trovai di
fronte a lui, l’eroe e
gli dissi (riassumo brevemente):
“Mi riconosci? Sono
venuto io a prenderti, quel giorno, te
lo ricordi? E tu non hai sparato proprio niente, te ne sei
stato nascosto dietro ad un
armadio e hai mandato due donne a aprirci
la porta e a dirci che
non c’eri. E Pippo non ha avuto paura
di te, figurati, ti ha lasciato
libero solo perché io gli avevo
detto che ti conoscevo bene e che ti sapevo un
bischero (così, con
una sola parola, si
definiscono certi individui dalle
mie parti) e che non valevi proprio niente. Il
mio discorsino, riportato
in succinto, fece
scoppiare in una grande
risata tutti gli astanti che conoscevano
bene il personaggio e sapevano quale peso dare alle sue chiacchiere e quale
alle mie affermazioni. (...) Ricordo
bene alcuni momenti particolari. Il resto è un po’ confuso: forse,
considerata la grande corsa e le avventure che si succedevano con un ritmo
frenetico, non può essere altrimenti. Fu
un’avventura molto strana. Cominciando dalla camminata sui monti. Partimmo
da Barga, se ben ricordo, passammo da Renaio e poi andammo sul crinale. Forse
al Saltello? Ricordo una lunga fila della quale facevo parte anche io, e
ricordo che avevamo tutti, io in particolare, una grande paura delle mine;
quelle mine a strappo che esplodevano toccando un filo teso fra la mina ed un
sasso posto dall’altra parte del sentiero. Ed
io maledicevo chi aveva messo le mine, e maledicevo chi le aveva fabbricate ed
anche chi le aveva volute. (…) Le
mine! Nei miei ricordi ce ne erano a migliaia. O forse non ne abbiamo trovata
neppure una! La mia mente non serba memoria di quei giorni. Percorremmo
lunghi tratti di crinali, esplorandoli alla ricerca di eventuali sbandati; ma
i monti erano deserti, freschi, verdi, abbandonati, silenziosi. Noi
camminavamo e camminavamo. Andammo al Giovo, e poi al Lago Santo e alle
Tagliole. La
gente ci accoglieva festante, perché il nostro passaggio voleva dire che la
libertà era tornata, che i dannati maledetti sanguinari se ne erano andati. Portavamo
la libertà: La portavamo in quei piccoli paesi persi nelle vallate e sui
crinali. E la voce della libertà arrivata con noi forse si spandeva sui monti
e nei paesi intorno e la gente gridava dalla felicità. Forse qualcuno
piangeva per il ritorno della libertà. Noi
eravamo portatori di Libertà e Felicità! Gli
uomini nascosti sui monti lasciavano le loro tane, come quelli chiusi nelle
soffitte e la sera si ballava e ci si divertiva. Il barbaro se ne è
finalmente andato, ha preso le strade che lo riporteranno nei suoi lugubri
villaggi popolati ormai solo di vedove e di mostri
orribili e deformi. Tornano nei luoghi dai quali sono partiti per
seminare lutti, sangue e odio nelle nostre ridenti terre. I maledetti vestiti
di verde con i loro accoliti vestiti di nero, sono finalmente sconfitti e
fuggono. Noi
li inseguiamo, con la speranza di riuscire a riprenderli. E
noi, pieni del nostro orgoglio, siamo coscienti e fieri del fatto che abbiamo
loro dato una bella spinta! (…) Infine
giungemmo a Sassuolo, ridente città ai piedi dell’Appennino. Di Sassuolo,
dove sostammo forse due giorni, forse tre, ricordo l’Albergo Italia (ora non
esiste più) e ricordo una bella ragazza (forse Giovanna?) terrorizzata da
mesi di bombardamenti e mitragliamenti sulla ferrovia vicina. Anche
Giovanna deve tanti ringraziamenti a chi, invece di lasciarle vivere la sua
tranquilla vita di bella figliola, l’ha voluta trascinata in una guerra. Ma
anche per lei ora è tutto passato. Le rimarrà nel ricordo la cazzottata fra
noi e i brasiliani, giunti nel frattempo, nel bar dell’albergo per motivi
che non compresi allora, figuriamoci se posso ricordarli adesso. Ai
pochi giorni di Sassuolo fecero seguito giornate affannose e succedentisi con
una tale velocità da non consentire alla memoria di trattenere ricordi
coordinati. Conservo solo alcune rimembranze, come sprazzi di luce nel buio. Ricordo
la notte in cui, forse eravamo già nel viaggio di ritorno, seduto solo e
infreddolito nel cassone di un grosso autocarro, mentre questo percorreva una
fangosa strada nei campi,
costellata da enormi buche, venni sbalzato fuori dal cassone da un sobbalzo
brusco e più violento degli altri. Passai volando sopra la sponda e atterrai
nel fango nero, molle e appiccicoso. Mi
rialzai, sporco, bagnato e mezzo ristupidito, solo, nella nera e umida notte
padana, con le luci dell’autocarro che si allontanavano traballanti. Non
ricordo come raggiunsi il mezzo. E tutta la colonna. Ricordo
il giorno in cui l’autocarro prese fuoco e sull’autocarro erano in sei o
sette, e c’era un fusto di benzina, e casse di munizioni e la cosa non fu
per niente piacevole. Tutti saltarono nella strada, poi uno risalì sul mezzo
e cominciò a gettare a terra il carico: soprattutto cassette di munizioni. Io
ero sul trattore che seguiva l’autocarro in fiamme. Colui che salì sul
mezzo in fiamme non salvò il mio sacco, non ne ebbe il tempo e forse ci
dovevo pensare io, ma il fusto era già lambito dalle fiamme e la polizia
militare aveva isolato il mezzo e fermato la colonna che stavamo incrociando. Poi
bruciò tutto e ci fu una grande vampata e noi perdemmo l’automezzo ed io il
mio sacco. Con dentro tutto quello che possedevo. Ed era la quarta volta che
perdevo tutto. Ricordo,
di quel viaggio, ma non ricordo in quali città, scontri vari con franchi
tiratori, e ricordo anche i carri armati che ne distruggevano un nido. E
Piacenza. Di Piacenza ho memoria
del Lungo Po e delle case che noi occupavamo. Scambio di cannonate tra
tedeschi e americani attraverso il largo, solenne e lento fiume. Poi,
mentre continuava lo scambio di cannonate, noi scendemmo con i nostri mezzi
lungo la riva e, alcuni chilometri dopo, trovammo, abbandonato, un traghetto.
E una barchetta a fondo piatto, una barca da fiume. “Servono
quattro volontari (io fui uno dei quattro) che attraversino il fiume con
questa barca e vadano a vedere cosa c’è dall’altra parte”.
Facile: si monta in quattro su una leggera barca di legno, si
attraversa remando il fiume e si prende terra dall’altra parte. (…)
Se sulla riva opposta c’è un solo tedesco (ma forse ce ne sono decine,
nascosti fra i cespugli e i sassi) e ci spara una sola fucilata, ci manda a
fondo e carichi come siamo di armi e munizioni, cosa facciamo? Nuotiamo? No!
Affoghiamo, miseramente affoghiamo; in pochi secondi siamo sul fondo fangoso. (…) Ricordo
anche, di quel avventuroso viaggio, il dramma della jeep che sbanda e va a
fracassarsi sul muro di una casa dall’altra parte della strada, Tre giovani
morti. Tre giovani americani. (…) Un
bravo ragazzo, ligure,
possedeva una grossa pistola a
tamburo, di quelle in dotazione ai
carabinieri fino all’inizio della
guerra. Nel tamburo di quella
pistola c’era un solo colpo,
una cartuccia difettosa che
non voleva esplodere. Tutti lo
avevamo visto, quel giovane, e decine di volte, premere il grilletto
fino a quando il tamburo aveva
fatto tutto il giro e poi “clac”, sul
detonatore difettoso.
Ma il colpo non partiva, non
ne voleva sapere, non
c’era niente da fare. Non so
perché il ragazzo si portasse dietro quella
grossa, pesante, ingombrante,
inutile arma: forse
era stata
la sua pistola
d’ordinanza e si era affezionato a quel arnese.
Ci fu l’improvvisa
avanzata e noi eravamo dalle parti di Modena
quando ci giunse
notizia che la sua città era stata liberata
ed egli chiese
ed ottenne un breve
permesso per andare dai
suoi, per salutarli,
per vederli
e farsi vedere, per
dare e
ricevere notizie. Erano anni che non si vedevano. Un giorno tornò e
riprese con noi la marcia su Milano. A
Milano il dramma. Eravamo nella fattoria requisita e tutti quelli di noi che
erano liberi da servizi
vari furono chiamati alla
pulizia delle armi. Distese a
terra le coperte e tutti noi intorno,
ognuno intento alla pulizia della
sua arma, al riempimento
dei caricatori. Alle mie spalle, seduto a terra come tutti, c’era
il giovane in questione: puliva la sua inutile arma. Si sentì
un colpo e poi un grido: il giovane era steso a terra e si teneva le
mani sul ventre. Lo trasportammo correndo verso una vettura
che lo portasse all’ospedale. Ma quando arrivammo alla macchina
era già morto. Quella
maledetta inutile vecchia pistola; quella
maledetta inutile innocua cartuccia difettosa che non voleva
assolutamente esplodere, avevano scelto quel momento per fare quello
per cui erano state fabbricate. E la difettosa cartuccia gli spedì il
proiettile nel ventre. Era morto! Pochi giorni dopo essere stato a trovare i
suoi, pochi giorni dopo aver fatto vedere che era vivo, che la
guerra, per lui, era finita bene. La guerra era finita da pochi giorni
e noi eravamo tutti contenti. Fino a quel momento. (…) di A.
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