RICORDI APPESI A... UN PELO |
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Il racconto che da tanto tempo avevo in animo di scrivere ha avuto una sua
prima , travagliata nascita nel 1988. A quell’epoca si chiamava “PELO”,
che era il titolo più ovvio da dare ad un libro di memorie di un partigiano
che aveva come nome di battaglia, appunto, “Pelo”.
Mettere sulla carta, dapprima a mano e poi ricopiare a macchina, due
anni di vita partigiana, mi costò circa tre mesi di duro lavoro. Comunque,
e questo è il punto, quando mi trovassi a dover giurare sulla verità di
alcune delle mie asserzioni, sentirei il dovere di rifiutare
Aldo Battaglini detto “Pelo”
I distaccamenti erano diversi e posti difesa dei punti più importanti,
come passi obbligati e punti dominanti. E, da quanto riesco a ricordare,
distaccamenti volanti che risiedevano un giorno in un luogo, l’altro in
altro luogo, spostandosi continuamente. Da
queste basi partivamo per le nostre imprese. Questa era la situazione prima che la formazione, così chiamavamo la nostra banda, si spostasse in Emilia a seguito di informazioni che davano per sicura una sostanziosa incursione delle truppe nemiche. Erano giunti gli alpini (tedeschi) a Bagni di Lucca, truppe scelte e noi eravamo ben coscienti della nostra debolezza (numero di uomini e addestramento, armi, munizioni, viveri) e del grosso rischio al quale avremmo esposto tutti gli abitanti nella zona e gli innumerevoli paesi posti lungo il perimetro. Tutta gente che ci aveva dato quanto poteva e di buon grado. *
* * Pelo.
Era il suo soprannome. Gli
era stato attribuito dai suoi nuovi compagni non appena questi avevano avuto
occasione di vederlo a torso nudo. Ché aveva il petto e la schiena, in parte
questa, coperte da un fitto, folto, spesso vello . Donde il nome di battaglia.
Pelo. Quasi
tutti avevano un nome di battaglia: il Piccolo (era il più giovane),
Garibaldi (difficile indovinare le sue idee politiche), Balistite (meglio non
stuzzicare), Bellezza (il più brutto) e poi Modena, Leone, il Fiorentino,
Torello, Capretto e tanti e tanti altri. Fra i quali Cefas (Salvatore, di
Cefalù), il Vecchio e Pippo, il comandante.
Era stato assegnato al distaccamento della Foce. La Foce di Campolino.
La Foce per antonomasia: la più alta, la più rude, la più forte, la più
panoramica. La più; la Foce! Ed
era ormai diventato un vero
partigiano; ne aveva i vestiti logori, gli scarponi
sdruciti, la barba ispida e, forse, anche l’aspetto duro, deciso.
Questo gli derivava, oltre che dalla vita che era costretto a condurre,
dal fatto che si era trovato finalmente a combattere dalla parte
giusta, contro i nemici veri, quelli di sempre. Dal fatto, di conseguenza, che
ora combatteva spinto da un’ardore feroce. Pelo
si sentiva un vero partigiano, un bandito, come dicevano i fascisti ed i
tedeschi. Ed
era diventato uno degli uomini che
godevano della piena fiducia di Pippo. Un
giorno, come faceva
rischiando ogni qual volta gli era concesso, era tornato e solo per alcune
ore, al tranquillo paese sulla carrozzabile. Per
rivedere Rina, per andare dal barbiere, per lavarsi. Certo
non poteva più permettersi il
lusso di fare il gradasso passeggiando
in divisa, unica autorità del
posto, sulla strada statale. Come faceva mesi addietro. Allora aveva una
divisa che, se non lo coinvolgeva intimamente, ma lo teneva relativamente
protetto. Ora non poteva permettersi di passeggiare sulla strada; doveva
percorrere i sentieri nascosti e farsi vedere meno possibile.
Quel giorno, su un sentiero nascosto, incontrò un giovane che
conosceva.
Seduti su una pietra, all’ombra dei castagni, si informarono
reciprocamente sulle cose della vita del momento. Fumando una sigaretta.
Parlarono di Santina, naturalmente, e di Luciana; poi della disgrazia
del momento, tedeschi e fascisti, della grossa trota che Guido aveva pescato e
di altre cosette.
Avvenne, parlando dei nemici, che il giovane gli disse che egli aveva
deciso di andare in montagna, insieme ad alcuni amici. “Come
dobbiamo fare? “Facile:
basta venire su. Però è meglio se io ne parlo prima
al comandante e
sento quale decisione egli prende. Solo dopo potrete venire con noi. Decisero:
Pelo sarebbe partito subito, diretto ai monti, al comando e avrebbe parlato al
capo, a Pippo. Poi sarebbe tornato giù e si sarebbero ritrovati il giorno
dopo a
notte fatta e pronti ad
una immediata partenza,
vicino a quel castagno,
sito al limite del Pian del Geppe, il pianoro subito sopra al paese. Che era
poi il castagneto nel quale erano in quel momento.
Presso il castagno essi avrebbero atteso: se Pelo non fosse giunto nel
volgere di un’ora, voleva dire che la risposta di Pippo era stata negativa.
Si salutarono e partì. Quella
che lo aspettava era una lunga camminata, ma ora
era ben allenato e inoltre conosceva la strada
da percorrere passo per
passo: ne conosceva tutte le curve, tutti i
sassi, i tornanti,
le asperità, le
scorciatoie e sapeva dove
prepararsi alla salita o alla discesa. Sapeva dove attraversare il
torrente, anche al buio trovava le pietre che potevano facilitare il
guado e sapeva
dove deviare per evitare la capanna
del pastore
del quale era meglio non fidarsi.
Andò dal capo e gli parlò ed egli chiese qualche informazione
sull’amico che voleva unirsi a loro e su coloro che poteva
presumere sarebbero stati i
suoi compagni. Acconsentì
all’arruolamento del nuovo gruppetto; però voleva prima un colloquio con
loro. Percorse nuovamente la strada conosciuta, in discesa questa volta, e si
indirizzò al luogo dell’appuntamento. Non
si fidava molto di questi appuntamenti presi con tanto anticipo, in luoghi così
ben definiti, ad ore precise: si prestavano a
troppe sorprese e le sorprese erano sempre brutte. Per questo era
sul luogo con due ore di anticipo, era ancora giorno, e per
questo, invece di fermarsi
vicino alla pianta stabilita, si mise ad una
certa distanza da questa, con alle
spalle la macchia che poteva offrirgli una sicura via di fuga. Naturalmente
non prima di aver esaminato con cura
gli immediati dintorni
e averli trovati assolutamente deserti.
Pioveva. Seduto su un grosso sasso si preparò alla lunga attesa. Poi
(quanto possono essere lunghe due
ore) sentì nel buio i passi
attutiti di alcune persone che si avvicinavano.
Erano non più di quattro o cinque, lo capiva anche se non li poteva vedere,
ed era gente che conosceva bene il
posto: camminavano nel buio con passo sicuro,
senza urtare una pietra o una radice,
silenziosamente e silenziosamente lo attesero sotto il castagno. Quel
comportamento da gente che
conosceva perfettamente i luoghi
gli dette la sicurezza di
cui aveva bisogno. Si
sollevò dalla fredda e dura pietra, finalmente, e si avvicinò al
gruppetto in attesa nel buio, sotto la pioggia leggera, fredda,
insistente. Con un breve fischio si fece sentire: rispose
il giovane col quale aveva fissato l’appuntamento e da lui si fece
dire i nomi di coloro che lo accompagnavano. Nomi
che già conosceva, anche
se non tutti conosceva personalmente, ragazzi del paese sparso sullo stradale
ed erano cinque in tutto, compreso l’uomo che aveva stabilito il contatto. Scusandosi
con loro per la precauzione, si accertò, perquisendoli velocemente, del fatto
che nessuno di loro possedesse un’arma. Tranquillizzato, ripose la
pistola che teneva in mano
e disse brevemente: “Andiamo”. Si
incamminò, a capo della breve fila, prendendo la strada lunga, per
evitare il paese poco più sopra, i suoi troppi cani ed i suoi troppi
pericoli: prese la strada (lassù le chiamano strade ma sono solo sentieri, a
volte ampi, comodi, pianeggianti, altre volte
larghi appena quanto è largo un piede e aspri,
sassosi, scoscesi) che saliva lentamente lungo il torrente e ogni
rumore era coperto dal fragore dell’acqua che precipitava, indifferente a
tutto, di sasso in sasso. Più in alto deviò e prese direttamente
attraverso la macchia e poi nel castagneto, diretto alla strada alta,
quella che dal paese che aveva
evitato con quel lungo giro, portava al passo e, trovatala, la
seguì. Era una salita impervia, dura, sassosa e per niente agevole,
specialmente di notte, col freddo e ormai bagnati come pulcini bagnati. Teneva
un buon passo, malgrado l’oscurità, e gli altri
lo seguivano abbastanza facilmente, sempre in fila, a brevissima
distanza l’uno dall’altro e sempre silenziosamente.
Gente che sapeva camminare e che conosceva la strada che stavano
percorrendo. Rallentò
solo quando
si rese conto di
essere a
breve distanza dal
posto di guardia che sorvegliava il
sentiero ed avvertì
gli altri del fatto che presto sarebbero
stati fermati. Poteva essere pericoloso, poteva costare la vita
avvicinarsi incautamente, di
notte, ad un posto di guardia sui monti: gli uomini erano sempre
all’erta e nervosi e poteva bastare poco per prendersi una pallottola nella
pancia. Lanciò
un breve richiamo al quale rispose
immediatamente lo scatto di due Sten che venivano armati e, un’attimo dopo,
una voce che chiedeva, sommessamente, chi fossero. “Sono
io, Pelo.”
Erano, questi, ragazzi che conosceva, con i quali aveva già passato
tanto tempo e si avvicinò tranquillamente.
Naturalmente gli chiesero
chi fosse con lui e quanti e dove andavano
a quell’ora, con quel tempo e chiesero anche se qualcuno avesse da fumare
e da qualche parte venne fuori un pacchetto di sigarette che furono
offerte a tutti. Uno dei cinque, proteggendolo con la
mano, accese un fiammifero:
un lampo di luce gli permise di
vedere in faccia, per un breve momento, uno dei compagni di quella notte: il
volto teso di un giovane biondo, forse diciotto anni,
madido di pioggia. La luce illuminò e fece
brillare una grossa goccia
che in quel momento si stava staccando dal suo naso.
Il giovane stava guardandolo, ma non sapeva, Pelo, cosa vide,
non sapeva cosa
provò nel trovarsi per la prima volta e in quella
insolita circostanza, di fronte ad un bandito. Lui, un vero partigiano,
un bandito, un’uomo con la taglia sulla testa! Già: allora davano un premio
in denaro o in sale a chi
aiutava nella cattura
di un ribelle e gli par di ricordare che il premio ammontasse alla
bella cifra di duemila lire: tanto
valeva la vita di un uomo, allora! Era
comunque una bella cifretta, tale da trarre in
tentazione tante persone di pochi scrupoli. Ci fu una breve
conversazione con i due uomini di guardia: il freddo della notte, la pioggia,
cose così e ripartirono. Ancora pochi minuti ed erano al coperto nella
Marginetta della foce. Era questa una cappellina poco più grande della norma,
forse tre metri per tre, salde mura e pavimento in pietra e,
sul fondo, un’altarino
con una semplice figura di Madonna. Opere
semplici, queste delle Marginette,
costruite anni e
anni addietro
da semplici uomini pieni di fede.
Entrò, seguito dagli altri
e dette subito disposizioni perché qualcuno andasse a prendere un pò di
legna (ce ne era tanta dietro la parete dell’altare) e quelli andarono, li
sentiva muoversi nel buio, li
sentiva ma non li vedeva, andarono a tentoni e tornarono con due buone
bracciate di legna secca ma bagnata dalla
pioggia. Non fu facile accendere il fuoco con quella legna bagnata ma
finalmente il difficile compito riuscì e fu un grande piacere vedere una
timida fiammella spuntare nel mucchio e, mano a
mano che si asciugava la
legna intorno,
ingrandirsi, farsi viva, allegra, tiepida prima e poi calda. Si
sedettero sulla pietra intorno cercando di farsi più vicini possibile e
tendendo le mani per scaldarsi meglio. Gli abiti bagnati cominciarono piano
piano ad asciugare e fumigavano di un tiepido vapore biancastro e cominciavano
a stare bene, al caldo tepore del
fumante, crepitante, fiammeggiante mucchio di legna ardente. Egli,
mentre si scaldava, guardava le facce intorno: oh, non erano belle da vedere
in quel momento e, del resto, neppure lui
doveva essere bello, ancora bagnato e fumante. Cinque
uomini giovani, cinque tipi
diversi, cinque
facce bagnate e ancora livide per il freddo. A parte uno di forse
trenta anni, alto, asciutto, scuro di pelle e dalla faccia scolpita, gli altri
erano giovani dai diciotto ai ventidue, ventitré anni. Uno, quello che
aveva intravisto nella luce del fiammifero,
il più giovane,
era poco
più che un ragazzo, una faccia da paffuto bambino viziato. Si
sorprese a pensare: questo non ce le farà. Un’altro era un ragazzo dal viso
lentigginoso, lo conosceva bene e
lo sapeva un ragazzo dalla battuta pronta,
sempre allegro, vivace, scattante,
occhi vispi e faccia scarna. Poi
c’era, anche questo conosceva
bene e anche per lui nutrì dei dubbi,
un giovanotto grassottello, di statura intorno alla media, piuttosto
timido, carnato roseo: da ragazzo doveva somigliare molto ad
un bel porcellino quasi pronto per la griglia. Ultimo
l’amico che aveva preso
il contatto con lui. In
quel momento sembrava quello che aveva risentito di più della durezza della
fatica e del freddo e la
cosa gli causò una certa sorpresa perché
lo aveva ritenuto, da
quando lo conosceva, un tipo piuttosto duro. Vedremo!
Venne il momento di
coricarsi (eufemismo), dopo aver ben caricato il
fuoco, che li scaldasse tutta la
notte: “se qualcuno si
sveglia, nella nottata, si alza e esce per andare
a prendere altra legna”,
si distese sulla pietra
(la pioggia crepitava
sul tetto) e si addormentò. Non bastavano
certamente la pietra e la mancanza di un cuscino per tenerlo sveglio!
Dormì tutta la notte: al risveglio notò subito che il tempo
era cambiato, il sole entrava dall’arco senza porta, il fuoco era
spento. Nella Marginetta era solo: gli altri erano usciti.
Si levò dalla dura pietra ed uscì a sua volta: erano seduti al sole
su un poggetto lì vicino. Si guardavano intorno.
“Buongiorno, ragazzi. Come va?
“Male! Siamo stati svegli tutta la notte.
“E perché?
“Era freddo e sulla
pietra io non riesco a dormire e
neanche gli altri.” La concisa
affermazione veniva dal più giovane. Il
sole, ancora basso, metteva in risalto i lineamenti, ne forzava le rilevanze. La
sua luce era ancora fredda, le ombre, lame taglienti, davano risalto al quadro
composto da quei cinque giovani variamente appoggiati o seduti sulle pietre
del muretto. A fare da sfondo un breve pascolo in leggera salita, verde umido
e brillante. “Posso
farti qualche domanda? Era il
più anziano
che parlava, ora.
“Certo.
Fu un fuoco di fila di domande e risposte.
“Come si dorme, lassù, dove siete voi voglio dire?
“Be, dipende. Alcuni distaccamenti
hanno capanne per tutti, altri no.
Dove sono io, per esempio, ci sono due capanne con il posto per diciotto o
venti persone e noi siamo
in trenta. Qualcuno dorme
dentro, a turno, gli altri fuori. “All’aperto?
Lassù, a millenovecento metri è freddo! “In
genere quelli che debbono dormire all’aperto hanno una o due coperte. “E
se piove? “Cerchiamo
di stringerci e di fare posto per tutti. “E
coperte? Di coperte ce ne sono per tutti?
“Non so come stanno a coperte gli altri distaccamenti.
Dove sono io ci sono
coperte per tutti quelli che dormono fuori e
ne avanzano alcune
per quelli che possono dormire dentro. Io, in genere, insieme ad altri,
mi copro con un paracadute.
Si rese improvvisamente conto di aver dimenticato di dire ai ragazzi di
portarsi una coperta. Ma ormai era fatta!
“E da mangiare?
“I viveri sono sempre pochi. Si mangia quando
qualcuno scende nei
paesi e rimedia qualcosa. A volte c’è pochissimo! Ora
è un periodo in cui si
mangia una volta al giorno, una sola volta
ma tutti i giorni. Una fetta di polenta al giorno. Fatta con farina
vecchia e senza sale. “E
cosa c’è da fare? “C’è
la guardia alle capanne, c’è da procurarsi la legna, da fare
la guardia alla Foce e le
pattuglie sui crinali. E ogni
tanto bisogna andare nei paesi più
lontani, la nostra
zona è molto grande, per cose varie. Poi uno deve andare tutti i
giorni al comando. La cosa più importante è la guardia alla foce e ai
sentieri che conducono alla foce. Se un giorno vengono i tedeschi, è da lì
che arrivano. Ma io non so dove vi manderanno: forse uno o due alla foce, gli
altri probabilmente saranno divisi fra qui, Granaglia, o la foce a Troghi, o
le Mancinelle, o forse al comando. Deciderà Pippo. E’ comunque da tener
presente il fatto che noi non siamo lassù per mangiare, oprendere il sole, o
fare passeggiate sui crinali; la ragione prima è la lotta ai fascisti ed ai
tedeschi; a volte capita di doverli affrontare. Questo
dovrebbe essere uno dei discorsi più lunghi che Pelo ha fatto nella sua vita,
ma era assolutamente necessario il farlo. Bisognava che quei ragazzi capissero
“E
negli altri posti si sta meglio o peggio? “In
alcuni meglio, in altri peggio. Io sto bene alla foce. “E
quei due ragazzi che abbiamo trovato sulla strada, da dove vengono? “Da
quelle capanne là dietro. “Dove
sono non c’è protezione. Sono già bagnati come pulcini. E con questo
freddo...!
Erano perplessi e pensosi. Lo guardavano. Poi il più anziano
disse che avevano bisogno di parlare un momento fra loro.
Li lasciò allontanandosi di qualche passo. La decisione la presero
alla svelta: gli si fecero intorno
e dissero subito che loro preferivano tornare a casa. Se era possibile! La
prova della sera,
la lunga camminata nel buio
sotto la pioggia, sull’aspro sentiero, la nottata insonne erano stati
troppo, per loro. E le prospettive sull’immediato futuro non erano certo
state allettanti. Ancora
erano troppo legati alla vita serena del tranquillo paese tutto disteso sulla
statale, al loro comodo letto, al calduccio del focolare. Alla polenta
accompagnata da fumanti fagioli o dalle saporite salsicce. Ancora non erano
stati toccati dalle disavventure della guerra, ancora le impetuose spinte del
dovere non avevano aperto bene i loro occhi. Ma un seme è stato gettato: sono
in tempo a cambiare e tornare. Li
riaccompagnò fino al posto di guardia: i
due ragazzi che avevano
trascorso tutta la notte sul sentiero, senza coperte, senza
impermeabile, sotto
la pioggia,
al freddo, senza
il conforto di un bel fuoco, guardavano. Nel loro sguardo c’era una
inespressa e sorpresa domanda. Se ne andarono: il ragazzo biondo, il più giovane, prima di sparire dietro la prima curva del sentiero, si voltò ed alzò le braccia in segno di saluto.
E’ necessario premettere che questo vuole solo essere un racconto di ciò che è successo nei giorni in cui la formazione, dopo essersi portata in Emilia, nel suo viaggio di ritorno, si trasferì da Canevare alla Foce a Giovo. Ma,
scrivendo, ho dovuto seguire una cronologia dei fatti che fosse il più
possibile aderente alla verità. Ho scoperto
che non è una cosa facile ed in alcuni punti ho dovuto rinunziare
perché i lontani ricordi affondati nella memoria non coincidono assolutamente
con quanto è scritto nella “relazione militare” e neppure con quanto
esposto dall’amico Pedracchi nella sua opera (Al tempo che Berta filava). Ho
avuto l’impressione che chi ha scritto la “relazione militare” si sia
sentito in dovere di ingigantire molti episodi, allo scopo di far fare una
migliore figura alla formazione tutta. Grazie,
ma io personalmente sono del parere che le cose debbono essere raccontate così
come sono successe e poi non c’è alcun bisogno di ingrandire un bel niente.
Quello che è stato fatto basta e avanza. E se ci fossero dubbi metteremo sul
piatto i nostri sacrifici e quello supremo dei nostri tanti morti! Sono
convinto del fatto che Pedracchi ha raccontato le cose nella maniera più
esatta possibile, ma egli si è dovuto contentare della memoria di tanti
vecchietti, ché ormai tanti vecchietti siamo. E alcuni gli hanno raccontato
cose che non hanno nessuna rispondenza con la verità. In tutta buona fede, ma
traditi dalla memoria. Un’esempio? Un
buon amico, con noi combattente, è nella ferma convinzione che Silvano
(ferito al ventre, portato a S. Marcello e poi nascosto nella zona di Pian
degli Ontani) sia stato ferito nelle Strette di Cocciglia. Nossignore: Silvano
è stato colpito alle Fabbriche di Casabasciana, in una piana sopra le vasche
della cartiera. Io ero a pochi metri da lui e sono assolutamente sicuro! Nella
stessa occasione e nello stesso luogo venne ferito alla coscia Leo, di S.
Cassiano di Controni. Ma
Pedracchi ha la mia comprensione perché ha dovuto mettere insieme tanti
fatti, tante memorie, diverse l’una dall’altra e cercare di ricostruire le
cose come si sono svolte. Compito molto difficile, specialmente se non si ha
la conoscenza dei luoghi e si è così lontani nel tempo. I
nomi che ho usato nel testo sono quelli reali: non credo che, a oltre 50 anni
di distanza , alcuno possa risentirsi. E non ne vedrei la ragione. Saputo
che gli alpini tedeschi ci avrebbero attaccato e che, soprattutto, avrebbero
colpito e distrutto tutti i paesi della zona ed ucciso i loro abitanti
(innumerevoli casi sono a dimostrare quanto sarebbe successo), fu deciso di
andare altrove ad evitare grossi guai. Meglio
andare, in modo che i tedeschi non trovassero alcuno, e poi tornare. A cose
fatte e finite. Canevare.
Io del piccolo paese sotto il Cimone e sopra
Fanano, non conservo il minimo ricordo. Non so se era solo un gruppo di
capanne di pastori o se erano case civili. Non ricordo se era un paese arido o
se era piuttosto immerso nel verde di frondosi alberi. Non ricordo niente.
Solo che era una splendida giornata di sole. Come
ho detto non ricordo che giorno fosse, ma forse posso risalirci: la buona
volontà non mi manca e neppure il tempo. Dunque
(so che non si comincia una frase col dunque: ma mi piace); il 31 di luglio mi
era stata fatta la carta di identità falsa, firmata dal commissario
prefettizio di Fiumalbo. Quel documento che mi aveva salvato la vita il giorno
dopo (uno agosto, martedì) quando una pattuglia tedesca mi aveva sorpreso. La
conservo ancora, gelosamente! E
continuano a mancarmi due o tre giorni! Ricordo
le facce sparute dei miei compagni e Pippo che nel frattempo aveva vissuto la
brutta esperienza del calcio di un mulo in pieno volto. Ne portava le tracce
evidentissime attorno all’occhio destro (se ben ricordo): l’impronta
violacea di un ferro da mulo che interessava la parte bassa della fronte,
scendeva all’altezza del naso attraversando
la parte alta della gota e risaliva alla fronte lambendo l’occhio.
Fortunato! Disteso
su una scala, infrebbrato, la ferita e la testa doloranti, era stato portato
dai suoi uomini fino a quando non si era ripreso. Fibra robusta! E buona
tempra. Al
momento in cui li avevo finalmente incontrati, nel paese di Canevare, stavano
facendo una sosta nel loro viaggio di ritorno verso le nostre terre. Ci
deve essere stata un’adunata e debbono essere stati impartiti degli ordini. Io
tornai a far parte del plotone di Capretto (vecchio fanfarone, rodomonte,
spaccamontagne) ed ebbi la mia nuova arma: fucile mitragliatore Bren, (una
curiosità: Bren da BRno e ENnfield)
calibro 7,65, caricatore curvo con 28 cartucce. Un po’ lento nel tiro ma
sicuro e, soprattutto, molto pesante. Me
lo misi in spalla e non lo abbandonai fino a quando non giunsero gli
americani. Armi più efficaci e molto più leggere. Ebbi
anche un corpetto di tela con tre caricatori di scorta. Un bel peso! Partimmo.
Non ricordo a quale ora, ma ricordo su quale strada. Anche
se non ricordo il giorno esatto, ho un’altro riferimento: il lago della
Ninfa. Siamo
passati dal lago della Ninfa durante la notte, e doveva essere una bella notte
di luna perché il laghetto splendeva di riflessi vari, immobile nella notte.
Noi passavamo col nostro esausto passo, una silenziosa fila di silenziosi
uomini che nella notte andavano da qui a la’. Passando vicino alla sponda
del laghetto. Ho
misurato sulla carta: in linea d’aria da Canevare al laghetto ci sono tre
chilometri: un’ora di cammino, forse, in quelle condizioni, un’ora e
mezzo. Ne deduco che abbiamo
lasciato il paese a sera inoltrata, quasi notte. Il
laghetto nel buio era splendido Tutto circondato dai faggi, neri nel buio. Non
l’ho più visto, quel laghetto, e non ho alcuna intenzione di andare a
vedere come è stato rovinato. Voglio ricordarlo come era: chiazza di luce nel
silenzioso buio e faggi neri tutto
intorno. E una colonna di silenziosi disperati che camminano. Silenzio. Passi
silenziosi. Una lunga fila si muove con circospezione sul sentiero terroso.
Non dobbiamo fare rumore, non dobbiamo disturbare la pace del bel laghetto.
Gli passiamo vicino, a pochi passi dalla sponda, ed egli neppure se ne
accorge. Io lo guardo affascinato, e continuo a camminare silenziosamente. Non
ricordo assolutamente come abbiamo trascorso il resto di quella notte. Forse
ci siamo fermati a riposare. Forse abbiamo camminato tutta la notte. Non
ricordo. Ho
fame. Non un piacevole appetito:
fame. Di quella vera, di quella che ti distrugge, ti abbrutisce. Quella fame
per la quale saresti disposto ad uccidere. Tutti avevamo fame. Una
lunga fila di disperati che, più che camminare, si trascinavano lungo un
viottolo di montagna. Accanto a noi, nelle sue vesti lacere e chiassose,
camminava la Fame. Gridava, per avvertire gli eventuali passanti che stavamo
arrivando noi: gli Affamati. Ma
sulla strada che conduceva al Cimone non c’erano viandanti. Non c’era
nessuno. Neppure altri affamati, disperati come noi. Ora
è giorno. Sulla
nostra strada, una capanna. L’apriamo: dentro un bel vitello ed un agnello.
La salvezza! Addio alla fame, per qualche giorno. In un bel vitello c’è
tanta carne da poter togliere le grinze dallo stomaco a tante persone. Io già
sentivo l’acquolina in bocca. Già mi vedevo rizzare le forcelline di faggio
intorno al fuoco di legna secca. Che
bruci piano piano senza fumo (i tedeschi non debbono vedere) lasciando un
bello strato di brace rossa. Già coglievo il profumo della carne che
arrostisce. Senza sale né altri condimenti. Una
voce: “Vedete in giro se vi riesce trovare il padrone”. Perché
noi siamo stupidi fatti così: in una Italia di ladri, in un’Italia di
affamati che rubano da tutte le parti, noi no! Se vogliamo mangiare il vitello
dobbiamo prima trovare il padrone e pagare. Perché noi non rubiamo! Quello
che mangiamo lo dobbiamo pagare! Alla
faccia della signora dalle vesti accese che cammina al nostro fianco. Chi se
ne frega delle sua grida, che ce ne importa dei suoi lamenti. Prima dobbiamo
trovare il padrone e trattare con lui l’acquisto del grasso, saporito,
appetitoso animale. Gli
uomini tornano, prima uno poi l’altro. Uno è andato avanti, lungo la
strada, uno indietro, verso il paese e uno di qua e uno di la. Nessuno ha
trovato il padrone dei due succulenti animali. E allora si da’ finalmente
ascolto allo schiamazzare strepitoso della brutta signora e si prendono i due
animali. Dobbiamo in qualche maniera toglierci la fame. E lo faremo con queste
due povere bestie. Ci
incamminiamo e con noi l’agnello e il vitello. Ma non
muoviamo che pochi passi quando un’uomo ci raggiunge di corsa. Poteva
correre, lui, non aveva la debolezza della nostra fame. Ci raggiunge e dice
che l’agnello e il vitello servono a lui. Noi diciamo che vogliamo pagare
gli animali: che ci dica quanto vuole, che’ noi paghiamo. E poi gli parliamo
della nostra fame e forse non è necessario dire che abbiamo tanta fame. Si
vede che non mangiamo da tanto tempo, si vede che soffriamo, che proprio non
ce la facciamo più. Ma non c’è niente da fare: il vitello serve a lui e
forse anche lui ha ragione, forse anche lui ha delle bocche da sfamare e conta
sul vitello. L’agnello no, quello ce lo regala. Forse per dimostrare che
proprio non può fare altrimenti. L’agnello ce lo regala. Io
già immaginavo l’agnello morto e spellato. E lo vedevo tagliato in tanti
pezzetti, quasi cento porzioni per quasi cento affamati: dieci chili di
agnello! Levata la pelle, gli intestini e qualche altro pezzetto che è
impossibile mangiare, restano circa sette chili. Comprese
le ossa, tolte le quali il peso utilizzabile si riduce a circa tre
chilogrammi. Lo
so: mi sono informato. Dal macellaio! E
tre chili diviso cento vengono 30 grammi di carne a testa. Una bella mangiata
per una persona che non tocca cibo da qualche giorno! Camminavamo.
Ci trascinavamo, per essere più precisi. Inciampando, barcollando,
bestemmiando, andavamo avanti piano piano per la nostra strada. E uno di noi,
non ha importanza chi fosse, portava sulle spalle il bianco, lanoso, tenero
agnello. Tre o quattro chilogrammi di succosa carne. Da dividere, non appena
giunti sul posto, una radura fra i faggi poco più avanti, da dividere in
circa cento porzioni da distribuire a circa cento affamati ragazzi. E ogni
porzione possibilmente uguale alle altre novantanove. Quasi
impossibile. A qualcuno la sorte farà spettare un pezzetto di coscia, altro
avrà un pezzetto d’osso con intorno un po’ di grasso. Camminando,
soffrendo il sopportabile e l’insopportabile, passo passo, arrivammo alla
radura nella quale era nostra intenzione abbandonarci al festino. A quel punto
colui che sulle spalle portava il succulento nostro pasto, ancora rivestito di
pelle e lana, ancora ben vivo e per niente disposto a lasciarsi mangiare, quel
giovane che portava l’agnello se lo lasciò sfuggire. Correva,
il povero agnello, fuggiva disperatamente ed era il nostro povero pasto che
scappava nella radura. Il tenero batuffolo di lana bianca correva fino a
quando arrivava al limite della radura, girava
bruscamente e riprendeva la corsa in altra direzione, per trovarsi nuovamente
il bosco davanti. Nuovo dietro-front e nuova velocissima corsa. Io
non potevo correre, non ce la facevo. Mi sedetti. E ridevo: ridevo
dall’avvilimento, ridevo dalla debolezza, ridevo per la strana, inconsueta
scena offerta da quasi cento affamati che rincorrevano il fuggente pranzo.
Inciampavano, cadevano, alcuni ridevano, altri piangevano. Non potevamo
sparare (i tedeschi potevano essere vicini): Pippo gli tirò la pistola e fu
così che ruppe il fodero. Era una pistola tutta particolare: sul
fodero di legno si poteva incastrare l’arma che così poteva essere
imbracciata come un fucile. Una bella arma. Con un prezioso fodero che in
quella occasione si ruppe. Poi,
con un prodigioso tuffo da provetto portiere uno di noi lo prese. Fu uccisa,
la povera bestiola, e spellata e buttate le zampucce e qualche altra cosa
immangiabile. E divisa coscienziosamente in cento bocconcini, o quanti
eravamo. Mi spettò una noce di carne ed un pezzetto di osso, buono anche
questo perché dentro contiene il midollo che può essere succhiato ed è
buonissimo. Ci dividemmo in tanti piccoli gruppi ed ogni gruppetto accese il
suo focherello. E intorno al focherello vennero disposte le forcelline di
faggio e sulle forcelline il boccone di carne infilato in una bacchetta. Con
le dita la bacchetta viene fatta girare pian piano e le dita cuciono prima
dell’agnello e il profumo si diffonde nell’aria fortunatamente immota. Fortunatamente
perché le montagne di allora erano piene di affamati e si stava con la paura
che altri potessero sentire il profumo ed accorrere. Rischiando di essere
accolti a fucilate perché il nostro copioso pranzo non può essere diviso con
altri! Quando
è quasi cotto lo si mette in bocca, non c’è bisogno di sbranare, non c’è
niente da mordere o dividere, è un solo boccone: lo si mette in bocca e si
mastica. Lentamente, che duri più a lungo possibile. E si ha la sensazione di
aver mangiato. Non, purtroppo, quella di essersi saziati. Dopo
cinque minuti la fame è la stessa di prima. Vien quasi fatto di pensare che
la povera bestia sia stata sacrificata per niente. Una morte inutile! Ho fame
come prima e mi chiedo se è vero che ho mangiato oppure no. Qualche fortunato
si accende una sigaretta come se fosse alla fine di un pranzo e avesse gustato
anche un buon caffè ed un liquorino! Dieci
minuti di riposo, la digestione deve essere facilitata, e si riprende il
cammino. Ora
so’ dove siamo diretti: ci terremo molto in alto sul versante a nord del
monte Cimone, passeremo da S. Michele e scenderemo al ponte per poi
attraversare la statale, la Giardini, come la chiamano da quelle parti. Io
sanMichele lo conoscevo, e conoscevo il ponte. C’ero stato giorni addietro
per andare a trovare una donnina che sapeva fare le chiarate. Perché ero
caduto e mi ero preso quella che sul momento credetti fosse una storta e che
ho poi scoperto essere stata una frattura. Strana sorte del mio malleolo
sinistro rotto una prima volta per correre incontro alla bella ragazzina della
quale ero pazzamente innamorato e, pochi mesi dopo, una seconda volta per
rincorrere una forma di pecorino che mi era caduta e scappava in discesa lungo
il prato. Era correndo dietro alla forma di formaggio che, messo male un
piede, ero caduto procurandomi la lesione. Curata dalla donnina di San Michele
e dalla gioventù. Un bastone per aiutarsi nel camminare e via! Ed
ora ero diretto nuovamente a San Michele, proveniente dalla parte opposta ed
in ben altre condizioni. Passammo
dal paese Michele a notte alta e poi la colonna si fermò. Pippo chiamò
Emilio che era di Pievepelago e conosceva bene i posti, e gli disse: “Scendi
fino al ponte e vedi se tutto è tranquillo. Poi torna da noi”. Emilio!
Ogni nome richiama un episodio. O più episodi. E
di episodi che vedono coinvolto Emilio ce ne sono tanti. In questo momento lo
ricordo a Bagni di Lucca (stavamo godendoci un breve periodo di riposo dal
fronte) quella sera in cui, al Circolo dei Forestieri, ci fu la grande
cazzottata fra noi, alleati con gli americani, a volte succedeva il contrario,
contro gli inglesi che volevano partecipare alla festa e tentavano di entrare
di prepotenza. Io
ero seduto sul bancone del bar e combattevo a colpi di bottiglia dati sulle
teste che mi capitavano. Emilio combatteva nel mezzo del salone, insieme ad un
gigantesco infermiere americano il quale colpiva con il suo enorme pugno
quanti inglesi gli giungevano a tiro. Emilio si incaricava di portarli fuori.
Un successone! Dopo
pochi giorni gli inglesi si vendicarono: invitarono ad una festa in un paese
di montagna Emilio ed il suo amico infermiere, li riempirono di botte e li
spedirono indietro legati sul basto di un mulo. Emilio
andò al ponte e tornò. “Tutto tranquillo. Al ponte non c’è nessuno”. Pippo
formò una pattuglia, non alcune come detto nella relazione ufficiale e nel
libro di Pedracchi, della quale chiamò a far parte: il prezioso Emilio,
Antonio (lo slavo), Capretto, il sottoscritto col suo Bren e sei russi. Disse
Pippo: “Voi andate al ponte, attraversate la statale, poi vi dividete in due
parti e vi disponete una parte sopra strada
verso valle e l’altra verso monte, per proteggere la colonna quando
arriveremo alla strada.” Partimmo,
in dieci e andammo al ponte. Ma le cose, nel frattempo, erano molto cambiate
perché avevamo appena passato il ponticello sul rio quando una voce che
gridava qualcosa in tedesco ci fermò. Immediatamente
dopo un colpo di fucile. Ta-pum! Non
poteva sperare di colpire qualcuno, con quel buio, il tedesco. Guardai in
alto, alla strada lontana forse trenta metri e vidi la fiammella di un’altro
colpo. Ta-pum! E se il tedesco avesse lanciato una bomba a mano? Eravamo nel
fosso e una bomba poteva provocare una strage. Intravedevo
la sagoma di un’autocarro e contro quella vuotai tutto il caricatore:
ventotto colpi in pochi secondi. Vicino a me qualcun’altro stava sparando.
Forse era Capretto con la sua pistolina. Beretta automatica calibro 9 corto.
Colpire un’uomo a dieci metri con quell’arma è un colpo di fortuna! A
cosa serve a trenta metri? A niente. Immediatamente
dopo arrivò la colonna tedesca. Non era partita su allarme da Pievepelago,
era già li, a forse cento metri, quando c’era stata la sparatoria. La
relazione dice che la colonna si era partita dietro l’allarme provocato
dalla sparatoria. Ma il ponte è ad un chilometro e duecento metri
dall’inizio del paese, 850 metri in via d’aria (come si dice). Supponiamo
che quelli dell’autocarro abbiano potuto dare l’allarme per via radio: non
credo che tutti gli autocarri tedeschi avessero una radio, ad ogni modo
sull’autocarro c’erano tre uomini e due erano morti mentre uno era ferito
tanto gravemente che, portato all’ospedale di Fiumalbo, trovò la morte il
giorno dopo. Notizie sicure, provenienti dalla Gianna e dalla Elia. Della
quale Elia ero tanto innamorato! Come
hanno dato l’allarme? Ma
seguiamo la supposizione di cui sopra; i tedeschi danno l’allarme per radio.
Chi lo raccoglie deve comunicarlo al comandante della colonna al quale spetta
prendere decisioni e dare ordini. Bisogna riunire gli uomini e poi caricarli e
nel frattempo mettere in moto e poi partire. E percorrere un chilometro e
duecento metri. Supponiamo che il tutto richieda solo dieci minuti. Ma gli
autocarri non sono giunti dopo dieci minuti, sono arrivati dopo dieci secondi!
E hanno cominciato immediatamente a sparare. Con tutti i mezzi: fucili,
mitragliatrici, qualche colpo di cannoncino, bombe a mano. E noi eravamo
ancora nel fosso. Un
finimondo! Non
ci fu una reazione da parte nostra, non ci fu un’ordine di ritirata. Ci fu
la fuga! Una fuga disordinata. Si salvi chi può! Bisogna
riconoscere che contro una tale forza armata noi non potevamo adottare altra
tattica. Solo la fuga potevamo impiegare contro quella colonna di autoblinde,
carri armati, centinaia di uomini. Truppe dirette al fronte attraverso il
Passo dell’Abetone e comandate da un’ufficiale che sapeva prendere le
precauzioni adatte contro il rischio di un’assalto di sorpresa da parte dei
banditi che numerosi battevano quelle zone. Egli
inviava avanti un’autocarro con l’ordine di occupare e difendere il
prossimo incrocio. Ed una vettura con l’incarico di effettuare la stessa
operazione sull’incrocio successivo. Ed un’altra ancora per quello più
lontano. E
quando Emilio era giunto alla strada nella sua esplorazione, l’autocarro non
era ancora arrivato. Ma c’era quando siamo giunti noi. Era arrivato in quel
momento, evidentemente. E la colonna non era ferma a Pievepelago, no, era a
cento metri, in movimento e pronta a difendersi e ad attaccare, alla bisogna. Noi,
sicuri del fatto che sulla strada non esistesse pericolo alcuno, eravamo
giunti al ponte senza prendere precauzioni. E ci eravamo trovati di fronte
alla bella sorpresa. Siamo stati fortunati: se la colonna giungeva mentre noi
eravamo sulla strada, non so immaginare cosa sarebbe accaduto. O forse lo
immagino molto bene! E’
scritto da qualche parte che lo scontro durò circa un’ora. Non è vero, lo
scontro durò solo il tempo di vuotare un caricatore di Bren, 28 colpi ed il
Bren ne sparava 450 circa al minuto. A voi lo scoprire quanto può essere
durato il tutto! Poi
la fuga. Disordinata. Nella notte mi trovai davanti un ragazzo immobile, in
piedi, nel mezzo della sassaia. Paralizzato dal terrore. Non so chi fosse:
certo non Antonio, non Emilio ne Capretto. Un russo, ma non so quale. Le
pallottole grandinavano intorno a noi, picchiavano sui sassi e rimbalzavano
ruggendo. Il ragazzo non reagiva alle mie grida, alle mie imprecazioni,
neppure agli spintoni. Reagì ai calci, potenti calci nel didietro che
riuscirono a muoverlo dalla sua paralisi e metterlo finalmente in fuga. Fra
i sassi prima, nel bosco poi, fuggivamo in salita, scivolando, ansimando,
bestemmiando, fino a quando giungemmo tanto lontani da sentirci al sicuro.
Dopo pochi minuti eravamo riuniti al resto della formazione che attendeva
sotto S. Michele. La
brutta, povera verità è questa e non quella delle “Relazioni
sull’attività militare eccetera”: “Dopo
alcune ore di sosta per esplorare il terreno vengono inoltrate pattuglie oltre
il fiume
con il compito di attestarsi al monte della nazionale n. 12
tuttora pattugliata
da carri armati e da truppa tedesca, al fine di proteggere il passaggio
degli uomini e
delle salmerie. Nonostante tutte le misure di precauzione, una
pattuglia viene avvistata da
sentinelle tedesche,. Viene aperto il fuoco da ambo le parti e ne deriva
uno scontro così violento da destare l’allarme in tutti i presidi
tedeschi circostanti.
Dal presidio di Pievepelago parte immediatamente una colonna di
carri armati
e truppa, che, giunta sul posto, rende difficilissima la ritirata verso il
gruppo di alcune pattuglie in condizione di inferiorità. (....) il comando fa
aprire il fuoco delle
armi automatiche nel tentativo di proteggere lo sganciamento e il
ritorno delle
pattuglie. Dopo circa un’ora di fuoco intenso, le pattuglie riescono
(.....). Eccetera.
Giusto
Petracchi: “ Quando la formazione giunse a passare la via Giardini nei
pressi di Fiumalbo, l’avanguardia sostenne uno scontro a fuoco con
un’autocolonna tedesca sopraggiunta nel frattempo”. Anche
se è necessario ogni tanto allontanarsi dal filo del racconto, non per dare
vita a polemiche (assurde, dopo tanto tempo) ma al solo scopo di
ristabilire la verità nuda come piace a me e cercando sempre di non
perderci nelle strane trame delle relazioni ufficiali, torniamo al nostro
racconto. Scaricati
i muli e caricatici delle loro some, riprendiamo la strada verso la montagna
dalla quale eravamo scesi speranzosi poco prima; il sorgere del giorno ci trovò
a nord di Fiumalbo, sul crinale che scende dall’Alpicella del Cimone. Ancora
più stanchi, sempre più affamati. E ora anche assetati. Forse perché non
avevamo acqua e non potevamo muoverci per cercarla. Eravamo distesi sul
crinale, con la testa sporgente sopra Fiumalbo, 400 metri più basso. Sotto a
noi una parete rocciosa, in fondo alla parete una copiosa sorgente. A forse 50
metri. Acqua
usciva da una fenditura nella roccia, formava una luminosa pozzanghera e poi
prendeva il suo cammino dando vita ad un piccolo rio scendente verso Fiumalbo.
Così bella, fresca, viva e irraggiungibile! Perché poco più sotto era ben
visibile una batteria contraerea e per chiunque si fosse azzardato a muoversi
verso l’acqua sarebbe stata la morte.
La
fresca dissetante acqua dobbiamo contentarci di guardarla. Tutti
fermi sul crinale, dunque, e la sete ce la teniamo. Insieme alla fame. Tàntalo!
Eroe della mitologia greca. Cerca di fondere i due piani del divino e
dell’umano, sia portando agli uomini i cibi degli Dei (nettare e ambrosia),
sia facendo mangiare agli Dei carne umana. Donde il castigo di Zeus: Tàntalo
è condannato alla fame ed alla sete eterne. Cento
Tàntalo soffrono la fame e la sete, avendo da bere a pochi passi e da
mangiare poco più sotto: a Fiumalbo nessuno ci avrebbe rifiutato da mangiare.
Ma nel paese c’è un reparto della Flak (come cavolo si scrive?), ed un
ospedale militare e un’altra batteria antiaerea è sull’altro lato della
valle, sopra la Dogana, e chissà quanti soldati e noi non possiamo scendere
in paese. Dobbiamo starne lontano. Il
sole. Il sole è alto nel cielo, è sorto quando noi già eravamo sul crinale,
tramonterà quando noi ci prepareremo alla partenza per cercare un’altra
volta di attraversare la statale. Nella notte, ovviamente. E’
una palla infuocata, rovente, ci guarda dall’alto, ci sovrasta. Non
un’alito di vento, quel giorno. Non una nuvola nel cielo. Non una goccia di
pioggia. Sole. Sole e basta. Un’astro fiammeggiante, rovente, e
siamo a 1400 metri di quota, proprio dove, all’epoca, aveva termine
lo strato di limo atmosferico ed il sole lo si sentiva meglio. Brucia
sulla testa, quel sole, arroventa la pelle, distrugge il fisico, demolisce il
morale, abbrutisce l’individuo. Implacabile! E noi, come tanti girasole,
siamo sul crinale e ce lo godiamo tutto. Senza una goccia d’acqua. Ci è
concesso vederla, l’acqua, ma non berla, non rovesciarne secchiate sulla
testa, non bagnarne i nostri poveri panni. Ci
fosse un pomodoro da poter mangiare. Un po’ di sete la toglierebbe. Ma non
ci sono pomodori, non ci sono cocomeri e neppure c’è una qualsiasi altra
cosa da mangiare, così come non abbiamo niente da bere. E poi chissà parché
mi viene in mente un pomodoro! Quando
mi sono arruolato tra i partigiani ho pensato al pericolo al quale mi
esponevo. Ho pensato che avrei potuto morire combattendo, che correvo il
rischio di essere catturato, torturato, fucilato, impiccato, decapitato,
bruciato, ammazzato a bastonate, inchiodato ad una porta con la baionetta
(povero Bruno). Ma che avrei potuto soffrire la sete, sul nostro Appennino così
ricco di acque, questo non me lo aspettavo! Ruscelli
nascono dalla roccia, sgorgano nei
prati, torrentelli debbono essere saltati o guadati ad ogni passo. Nelle
faggete, nei castagneti, nelle nere abetaie, sugli alti pascoli, sui crinali e
nel profondo delle valli. Ovunque è acqua. Limpida, fresca, cristallina. E
noi, nel bel mezzo dell’Appennino, stiamo soffrendo la sete, con le labbra
che si sgretolano, con la lingua che piano piano si va gonfiando. E, come Tàntalo,
l’acqua è a pochi metri da noi, la vediamo scorrere fluente, scintillante,
ma non possiamo berla! Sopra
le nostre teste il sole imperversa, palla di fuoco che non conosce pietà.
Amico di sempre, ma terribile nemico oggi. Oh, avere un’ombrello,
un’albero, un tetto, un muro, un qualcosa da interporre tra la mia testa e
le fiamme. Il
tempo passa, lentamente, dolorosamente, ma passa. Arriverà la sera, il sole
se ne andrà sul suo carro di fuoco trainato dai quattro cavalli, scenderà
nel suo notturno rifugio. E mi lascerà finalmente in pace! “Quel sol che
pria d’amor mi scaldò ‘l petto” come dice il divino. Scende
la sera e noi ci incamminiamo: affamati, assetati e ora anche bruciati dal
sole. Con armi e bagagli dovremo scendere nella notte verso Fiumalbo,
aggirarlo tenendoci sulle pendici del Cimone, poi attraversare la valle,
passare la statale e finalmente salire sui nostri monti, verso le zone che
conosciamo meglio, tornare a quella che un tempo era la nostra base, la sede
della nostra formazione. Il
sentiero che seguivamo quella notte mi era completamente sconosciuto. Impervio,
stretto, scosceso, tutto immerso nella fitta macchia di faggio. Pieno di
radici sporgenti e fitto di grossi sassi rilevati, tutti assolutamente
sconosciuti; ed ogni radice una bestemmia e ogni sasso un moccolo. Il Bren che
portavo sulle spalle, ad ogni pié sospinto rimaneva attaccato ad un ramo
sporgente; nelle maniere più strane. Ed ogni ramo sporgente mi costringeva ad
una breve sosta. Quelli dietro spingevano bestemmiando sottovoce. Io,
sommessamente bestemmiando, cercavo di liberare l’ingombrante arma dagli
arbusti che lo trattenevano. Fra
brevi arresti, brevi corse per raggiungere quelli che nel frattempo erano
andati avanti, il cammino proseguiva, nel buio più fitto, nella notte più
nera. Sempre
accompagnati dalla fame che ormai era diventata un pesante fardello. La sete
no. Quella ce la eravamo tolta al primo rio che sciabordando avevamo guadato.
L’avevo risalito di qualche metro, nel buio, quel rio. Per non bere il fango
sollevato dai nostri scarponi. Mi ero inginocchiato nel bel mezzo della
corrente e avevo bevuto. A sazietà, fino ad essere completamente appagato,
fino a quasi affogare. Quasi. E poi mi ero bagnato la faccia e la testa tutta.
Acqua avevo gettato, con la coppa formata dalle mani, sulla testa, sulle
spalle, sul petto. E
ora, tolta la sete, rimaneva la fame e tremavo dal freddo.
Cominciavo ad essere depresso, abbacchiato, demoralizzato. Quel lungo,
faticoso, scomodo, sentiero mi stava distruggendo. Insieme alla fame,
naturalmente. I cui morsi sentivo sempre più acuti. E
torrenti e torrentelli da guadare, buche che si spalancavano
improvvisamente sotto i piedi. Scivoloni, ruzzoloni. Poi
un largo torrente nel quale, anche se poco
profondo, le acque correvano veloci e turbinanti. Del torrente
non si vedeva
niente, ma si indovinavano le pietre per
la leggera luminescenza
dovuta ai vortici che si formavano intorno ad esse e si saltava di pietra in
pietra e ogni tanto si udiva un tonfo, a
volte accompagnato da una sorda
bestemmia: qualcuno aveva messo un
piede su una pietra che non c’era. Avevamo
con noi un’uomo di età assai più
avanzata della nostra,
forse cinquanta, cinquantacinque
anni, o forse sessanta, non
so. Aveva le mansioni del cuoco,
quando c’era qualcosa da cuocere
(il suo lavoro con noi non era
certo impegnativo) e portava sempre con sé i
suoi arnesi: una grossa pentola di rame, tenuta in spalla
con il braccio infilato nel
manico e un insieme di altre pentole
e padelle, legate tutte
insieme con un cordino e quando camminava
faceva un bel po’ di chiasso. Questo
uomo era davanti a me quella notte,
quando attraversammo il torrente
e mise un piede in fallo e cadde in acqua. Cadde disteso nell’acqua gelida
con gran rumore di pentole e io che lo seguivo e il compagno che ci
precedeva entrammo
nell’acqua e lo tirammo fuori: grondava da tutte
le parti, naturalmente e si lamentava della sorte che lo perseguitava e
bestemmiava, imprecava, malediceva. Ho
un vasto repertorio di bestemmie, io, e molte le ho imparate da lui quella
notte. Come
fortuna volle arrivammo tutti dall’altra parte del torrente e anche
dall’altra parte della strada. Ora eravamo nella nostra zona, ancora alcune
ore di cammino e avremmo raggiunto la
nostra meta. Eravamo
nuovamente su
strade, sentieri,
mulattiere che conoscevamo
perfettamente e camminavamo spediti, anche se era ancora
notte fonda e la fame continuava a tormentarci, a
farsi sentire acutamente. Fu,
quella, la notte dell’assalto al melo. Quel melo vicino al quale ci trovammo
a passare (eravamo nei terreni
coltivati vicino al paese) e che qualcuno, malgrado il
buio, riuscì in qualche modo a vedere. Il melo era carico
di frutta e, in silenzio e
non so come potessero farlo, due o tre ragazzi in
un momento erano sulla pianta e gettavano di sotto tuttele mele che
capitavano fra le loro mani: mele mature,
mele acerbe, buone, cattive,
marce anche. E noi,
di sotto, raccoglievamo
il tutto, brancolando nella
notte e ad ognuno toccarono due o
tre mele. La manna
piovuta dal cielo,
una mangiata incredibile. Spogliato
il melo di tutte le sue mele,
riprendemmo il nostro cammino, arrancando
nel buio fitto. Quella
notte, abbiamo poi sentito dire a Fiumalbo, avvenne un fatto insolito, strano
e assolutamente singolare. Se è vero! Ma, in una guerra come quella, tutto può
essere vero. E tutto può essere il contrario di vero. Era
stata posta una batteria contraerea, sopra la Dogana. Una batteria della Flak
(ma come diavolo si scrive!): noi l’avevamo veduta dall’assolato crinale
sopra Fiumalbo, ma forse non avevamo ben capito dove si trovasse. Camminavamo
lungo il sentiero che doveva condurci alla nostra meta. E non ci rendevamo
conto del fatto che il sentiero passava a breve distanza dalla batteria.
Camminavamo più silenziosamente possibile, ma un po’ di chiasso era
inevitabile farlo. I
tedeschi sentivano innumerevoli piedi che si muovevano nella notte, scarponi e
scarponi che nel buio pestavano la terra, inciampavano nei sassi. E, si
racconta, vennero presi dalla paura. E’ forse una colonna che ci sta
circondando? Forse sono migliaia di banditi che si preparano all’assalto.
Presto saremo tutti morti, e quelli che si salveranno dall’assalto verranno
scannati e lasciati morire dissanguati. Orribile. Fuggirono,
ignominiosamente, vergognosamente scapparono andando a rifugiarsi nelle case
del paese. Abbandonando armi e munizioni, cannoni, tende. Tutto! Noi
non sentimmo niente, niente vedemmo. Lo venimmo a sapere alcuni giorni dopo. E
si rise tanto! Camminammo
tutta la notte ed era giorno fatto quando giungemmo ad affacciarci sulla valle
del Rio delle Tagliole, a quota 1522, sul crinale che divide le Pozze dalle
Tagliole, sulla strada del Duca (come è chiamata sulle carte dell’I.G.M.). La
strada del Duca si stacca dalla strada che da Faidello conduce alle Pozze in
località Case Coppi e va verso la foce al Giovo. Non ricordo quale percorso abbiamo seguito quella notte, ma non siamo certamente andati al Lagadello e tanto meno a Rotari. (...) Mastico,
mastico pazientemente, diligentemente, la bocca piena dell’aspro, disgustoso
sapore della vecchia, dura carne. Che, già dura di natura, non è stata
frollata e non è stata condita con un pizzico di sale. Solo condimento, la
fame. Mastico, mastico e poi inghiotto. Ho inghiottito un pezzo di carne cotta
o un pezzo di legno? C’è da domandarselo. Un
secondo boccone e tutto è finito. Ho scoperto comunque, tutte le esperienze
servono a qualcosa, che un boccone di vecchio montone è meglio di un boccone
di tenero agnello. Perché costa tanta fatica il masticarlo e poi il digerirlo
che si può avere l’impressione di aver fatto un lauto pranzo. Da
“Al tempo che Berta filava” di Giorgio Petracchi: “I
sentieri furono perduti, poi ritrovati dallo stesso Pippo, che guidò la
formazione alla casermetta dell’Ospedaletto. Qui, dopo tanti giorni, fu
imbandita la mensa: spezzatino di pecora con patate, ciliege amarasche per
frutta; lo stucchevole odore dello spezzatino si diffuse nel raggio di un
miglio.” Ma,
scusa Petracchi, chi ti ha raccontato queste cose? Poi
fummo alla Foce a Giovo e Pippo chiamò da parte me e Capretto e disse: “Ora
voi andate (intendeva Capretto e
il suo distaccamento) nella zona di Vico Pancellorum. Io con il resto della
formazione, vado nella zona del Bacchio Nero, sopra Coreglia. Non dite a
nessuno dove siamo. I collegamenti teneteli voi e nessun altro”. Noi
ci incamminammo verso Vico ed egli, con tutti gli altri, andò verso il
Bacchio Nero. Fù così che per me cominciò una nuova vita.
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