RICORDI DI UN PARTIGIANO DELL’XI ZONA

 

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RICORDI DI UN PARTIGIANO DELL’XI ZONA

di Lorenzo Anzilotti

 

Sono tanti gli anni, forse tu dirai: perche ricordarli? Sono nato a Pescia nel 1926, gli anni più belli della vita di qualche persona, ma non lo sono stati per me e per altri giovani come me, dal 1936 al 1946.

Dopo la resa dell’8 settembre anche la Casa Savoia e i monarchici abbandonarono i soldati ma anche la popolazione alla mercé dei barbari, credo che saprai quali furono gli avvenimenti, dal sud al nord la Wehrmacht  e le SS di Kesserling. Arrivati in Toscana si fer­marono sull’Appennino Tosco-emiliano, Linea Gotica, poveri illusi, tedeschi e italiani, la  X MAS , la  Monterosa e altri po­veri che per salvare la pelle né facevano parte.  Loro di là e noi di qua, mesi e mesi duri dal settembre del 1944: la Resistenza sull’Appenino Tosco-emiliano dimostro la grinta italiana.

Mio fratello Piero e altri partigiani di Monsummano erano andati incontro alle forze alleate che si trova­vano al sud. Vicino Fucecchio, nel ritornare a Monsum­mano, nella località chiamata “Vergine dei Pini”, vi fu un’imboscata di tre tedeschi che si stavano ritirando. Nella sparatoria né uccisero uno e né ferirono quattro. Qualcuno vide dalla finestra e raccontò che mio fratello scappò fra i ca­mpi ferito. Allora, era più o meno nel settembre del 44, non ricordo il giorno, mio fratello sparì, nessuno aveva noti­zie di dove poteva essere. Noi si dava per morto. Pochi giorni dopo arrivavano i primi contingenti alleati, erano carri armati, penso che erano inglesi, passarono e continuarono ad andare al nord dietro ai tedeschi.

Pochi giorni dopo arrivarono gli americani del genio per ricostruire strade e ponti,  con questo davano alla popolazione civile da lavorare e fare qualche AM-lire. Non ricordo esattamente le date ma seppi che Pippo stava orga­nizzando un corpo di combattenti per continuare la lot­ta a fianco degli alleati che era la Quinta Armata di Clark. Pippo era già conosciuto per la lotta partigiana su nella Garfagnana. La mamma e mio padre non avevano pace dopo che Piero era sparito. La nostra famiglia soffriva, si vedeva nei volti.

Arrivai in casa e dissi : ”Babbo Mamma io vado con Pippo voglio vendicare la morte di Piero”.  E’ inutile dirvi che mia mamma era contraria. Ma io andai anche se non ero appoggiato da quelli che amavo di più.

Avevo solo 18 anni, ma dai 16 anni già lavoravo a Pistoia al Campo di Volo , via Ciliegiole, ma questa è un’ altra storia che fa parte dei giorni più tristi della mia vi­ta, bombardamenti, razzie e li finì quando finì il campo di volo. Poi Ti racconterò;
 
(…)
 
Mi presentai non ricordo dove né la data, era un paesino sopra o vicino Bagni di Lucca ancora nella zona della Garfagnana, i tedeschi facevano razzie, noi ancora non si sapeva cosa succedeva ci muovevano di là e di qua.

Non ricordo bene le date ma ci mandarono a Mutigliano, vicino Lucca. Lì ci insegnarono l'arte della guerra, buttare granate spa­rare il fucile etc..., vestiti con uniformi come quelle dell'esercito americano. Poi ci schiaffarono suì camion e ci portarono ancora vicino Bagni. I tedeschi e i republichini erano già sulla Gotica.
 
(…)
 
Si arrivò a Barga più o meno nei giorni dopo Natale in cui i tedeschi erano scesi giù; c’erano i sol­dati americani della Bufalo che avevano problemi nel difendersi.
Appena arrivati cominciò il bombardame­nto, era già sera io mi buttai giù dal camion e rimasi dentro di una casa diroccata fino alla mattina.

I tedeschi ci ricevano con cannonate o con il mortaio 81, la loro posizione era al nord dove vedevano tutti i movimenti. I tiri dell’artiglieria canadese giorno e notte non riuscivano a colpirli. La mattina dopo ci mandarono su a Renaio. Era una camminata su in montagna non ricordo bene, ma doveva essere più o meno di 40 minuti o 1 ora. Si dava il cambio a quelli che era­no là. Ricordo molto bene che appena eravamo nella postazione i tedeschi cominciarono a buttar giù bom­be. Non ricordo quanti uomini eravamo forse una trentina, prima del bombardamento. Ci divisero: la nostra metà andò a Bebbio. Più o meno noi eravamo sul cammino che comincio a farsi sentire il mortaio 81. Già se ne conosceva il suono. Ne ammazzarono non ricordo quanti ma uno era un ragazzo, mio amico di Mutigliano.

 
Lì in quella postazione si rimase 2-3 mesi facendo pattuglie. Si vedevano i tedeschi sulle creste dei monti. Davanti alla postazione si aveva una 50 millimetri che ogni tanto si sparava. Giù nel versante est c’era la strada che andava alla località chiamata Bacchio Nero dove i barbari venivano giù, facevano razzie, portavano via vacche, polli, maiali. Ma ricordo che un giorno arrivò un contadino voleva che si andasse giù perche i barbari stavano portando via una donna. Noi gli andammo dietro e ci fu un scontro: erano tre e furono tutti uccisi.

Là nelle loro postazioni avevano fame, è per questo che quasi tutti giorni attraversavano e si arrendevano. Eran di tutte le razze: civili italiani, russi, francesi e republichini.


Mi ricordo che nel portare giù a Barga questi individui che attraversavano mi incontrai con Pippo e gli chiesi se ci dava dei vestiti e delle coperte perché dove ci trovavamo faceva freddo. Mi disse che avrebbe provveduto. Infatti dove eravamo si stava male si dormiva nella stalla in sacchi a pelo, c’erano topi, puzzava, si mangiavano scatolette dell’esercito.

Un giorno venne su il comandante e disse che ci mandava in altra postazione più in alto.

Dopo qualche gio­rno e una camminata su per le montagne si ar­rivo alla postazione Giogo.
 
Si stava, molto peggio di Bebbio, non ricordo il tempo che si rimase. Anche lì la gente attraversava di notte. Quando ero di guardia li sentivo venire su.
 
Si doveva essere ai primi di Aprile e un giorno venne l'ordine di lasciare la postazione e avanzare in direzione delle Tre Potenze. In realtà noi non si aveva nozione del tempo, niente calendari né orologi, poco sole, molto freddo e poche notizie.
 
Si arrivò a un punto in cui ci unimmo a un altro gruppo. Ci avvisarono di andare in fila uno dietro l’altro. Eravamo vicino alla cima. Dopo tanti mesi quello che aveva il walkie takie, mi chiama e mi dice che mio fratello era in linea, vivo!  Mi rallegrai, lui era giù con un altro plotone.

Sul cammino dell’avanzata, mancavano pochi km per essere in cima, il Lenzi mise il piede su una mina tre per­sone avanti a me.

Arrivati in cima si vedeva più in basso il quartiere dei tedeschi o repubblichini: era un grande hotel che in tempo di pace serviva per le competizioni di sci. Nessuno sapeva se ci fosse stato ancora qualcuno, e chiesero tre volontari. Questi furono io, Turiddo e un altro di Montecatini di cui non ricordo il nome. Si scese giù orecchie e occhi aperti, non una mosca per fortuna.  Arrivati a valle si trovò un ruscello di acqua limpida e mentre si aspettava gli altri andammo a lavarsi i piedi.
 
Eravamo giù vicino al ponte e si sentì un rumore di passi di cavallo. Si corse a prendere le armi. Eravamo scalzi e si vide un contadino che veniva col mulo ca­rico di legna. Gli domandammo se ancora aveva visto tedeschi in giro rispose no, che erano andati via da due giorni.

Il grosso venne giù e ci fermammo a Fiumalbo. Si passò la notte in casa di civili: 3 o  4 qui, altri 3 o più in altre case. Noi eravamo in 4 e si ebbe la fortuna di stare in una casa che era di due sorelle che ci lavarono i piedi, e si dormì in letti con lenzuoli.
 

La festa non durò molto: alle prime luci del mattino ci buttarono sui camion e si scese sul versante emilia­no dell’Appenino. Si stava vicino ai nemici e bisognava evitare che facessero saltare i ponti. Questo era l’ordine.

Si arrivò a Pavullo. Fino là andò tutto bene: neanche un colpo di fucile, le cose erano nelle mani dei partigiani locali. Non solo, ma stavano festeggiando insieme ai tedeschi perché questi non avevano fatto saltare i ponti. Bene o male noi bisognava prendere questi “santi” che all'ultimo momento avevano girato la giacchetta. Ci furono discussioni con il Sindaco del posto e il comandante del plotone li prese e li mandò dietro le linee.

Poi vennero Sassuolo e Maranello.

Ci fu qualche scontro con i tedeschi che fuggivano. Si rimase fermi qualche ora, poi si riprese la marcia, obiettivo Modena.

Eravamo alle porte di Modena e i cecchini dalle finestre sparavano su di noi. La sparatoria non durò molto. Lì in Modena tutti i gruppi come noi si incontrarono con la quinta armata, inglesi o altri canadesi e brasiliani. Ci divisero e ogni gruppo segui per il nord in differenti rotte.

Modena, Reggio, Parma, Piacenza.

A Reggio i partigiani erano padroni della città. Fucilate da tutte le parti: ammazzavano tutti i fascisti. Nelle strade c’era un corteo, rapavano la testa delle donne.

Io con altri si andò a visitare le carceri e la Prefettura.  Loro pensavano che noi eravamo americani e gridavano di salvarli. Il plotone dove era mio fratello arrivò prima di noi a Reggio. Eravamo ancora sul camion  quando mio fratello mi chiamò gridando: “Renzo, Renzo! Vieni giù! Anzi, fermatevi che in città ancora c’é qualche matto”.  Ci abbraccia­mmo e poi mi raccontò di come si era salvato da quella imboscata: una pattuglia di inglesi lo aveva trovato e portato all'ospedale di Siena.

Come ho detto Reggio stava in mano ai partigiani locali, matti di vendetta. Noi e le truppe inglesi si doveva mettere ordine. I cecchini però continuavano a sparare. Notai una finestra su vicino al campanile della chiesa e si andò là  io e altri due compagni. Il prete gridava di non farlo perché era la casa di Dio. Macché Dio! Dov’era Dio? Su in cima alla torre vidi alla fines­tra un fucile. Bum, sparai e il fucile sparì.
 
Si arrivò a Parma di notte. Si sentivano cannonate e schioppettate da tutte le parti. Ci trovarono delle case per passare il resto della notte, si dormì sul materasso fatto di foglia di pannocchie, la famiglia ci tratto benissimo. Ricordo noi si diede a loro caffè, sigarette, cioccolate e anche scatolette di cibo.

La prossima era Piacenza. Non ricordo bene quanto tempo si rimase fermi. Si stava in una cascina a una certa distanza dalla città e dal Po. I gruppi si erano riuniti. Parlo del nostro gruppo “Pippo”, ma pure gli americani della Quinta Armata con ta­nk (carri armati). L'ordine era di non lasciare distruggere il ponte.

I tedeschi e i republichini ancora sparavano ma ormai erano agli sgoccioli, infatti quando si uscì da Parma si incontravano corpi di republichini da tutte le parti, più quel­li che si arrendevano, poveracci! Anche loro non sapevano più che fare, nessuno diceva  loro di come stava la situa­zione, vestiti di stracci, senza mangiare, l’unica maniera era arrendersi, e se si rifiutavano il fanatico li ammazzava. La vita non aveva più valore: un morto o cento e più non faceva differenza. Hitler pazzo, Mussolini illuso e sentimentale.

(…)

Ritorniamo a Piacenza. Dopo pattuglie e cannonate la mattina arrivò l’ordine di avanzare: una fila a sinistra della strada e un’altra fila a destra. Non si fece neanche un km che la “raganella”, nome che si dava alla mitraglia dei barbari, si fece sentire e mi buttai giù dove scorreva l’acqua. Poi ci infilammo dentro una scuola lì vicina aspettando gli accadimenti. Mio fratello nel frattempo trovò una moto tedesca, ricordo bene una Zündapp, e andò fino giù dove erano piazzati con quella mitraglia. Fece il giro attorno a loro e ritornò. Allora i tank cominciarono a sparare, non ricor­do bene, ma poi si proseguì, attraversammo il Po. Il fumo e le cannonate si vedevano e si sentivano: la gu­erra non era finita.

Prossima era la città dì Lodi. Milano era a un tiro di schioppo, ma ancora si doveva stare allerta, io ave­vo un problema: i miei piedi non ne potevano più. Il dottore ufficiale aggregato mi medicò e proseguì il resto del tragitto sul camion.

Eravamo a pochi km da Lodi e giunse l’ordine di fermarsi. Cosa succede? Davanti, sulla strada, ci sono carri armati tedeschi, si vede una bandiera bianca. Una jeep con soldati vanno là. Si arrendono ma solo agli americani. Il comandante con altri vanno là. Caso fin­ito, meno male! Oltre ai carri c'erano una cinquantina di solda­ti che non vedevano l'ora di farla finita: le loro condizioni erano pes­sime chiedevano mangiare e sigarette , chissà da quante ore era­no in quelle condizioni, avevano paura di cascare in mano ai partigiani.

Il resto del cammino proseguì tranquillo. Anche se non ci dicevano niente capivamo che ormai la guerra era alla fine.

Arrivati a Milano là i partigiani festeggiavano, sfilavano ridendo. Ciò che più richiamò la mia attenzione fu che sventolavano bandiere italiane e rosse con la falce e il martello e neanche una americana, qualcuna inglese.

Anche nelle città dove si era passati era stato così, il perché poi lo capii: erano i bombardamenti che avevano massacrato la popolazione.

Noi tutti lo sapevamo che a prove fatte chi finì con il nazismo di Hitler e il fascismo di Mussolini furono gli americani e i loro alleati con il supporto dello sforzo tecnologico e industriale. Così finirono anche con i po­veri fanatici dagli occhi a mandorla.

A Milano ci mandarono in un cascina, cosi come anche il com­pagno Sante Santini descrive.  Là si aspettava cosa faceva la diplomazia. Qualcuno diceva che si andava in Germania se i tedeschi non si arrendevano.

I pochi giorni che si rimase lì in questo cascinale o fattoria la città era giorno e notte una sparatoria: era la vendetta degli antifascisti (molti fascisti quando l’Italia si divise erano fuggiti al nord). Alla mattina quelli che raccoglievano la spazzatura caricavano anche i corpi di questi.

In quei giorni ammazzarono Benito, l'amante e i gerarchi che se ne andavano in Svizzera. Li appesero in quel piazzale dove avevano fucilato pochi giorni prima un gruppo dì persone. La storia dice che non erano partigiani ma come ho già detto la vita non aveva più valore: uno più o milioni meno non faceva differenza.
 
Per curiosità si andò al cimitero: Turiddo voleva sapere se trovava quei fasci­sti che avevano bastonato suo padre. Come si arrivò presso il cimitero si sentiva un puzzo orribile. Si fece un giro breve. I morti erano uno sopra l'altro, non sapevano dove metterli, non avevano spazio a sufficienza, una vista straziante, disgustosa.

Un giorno si doveva andare all’aeroporto perché i tedeschi volevano arrendersi solo agli americani. Io non c’ero, altri andarono.

Una notte io e altri eravamo di guar­dia e si vide un gruppo di tre o quattro venire su con un fazzoletto bianco, repubblichini della Decima,  piangevano, erano disperati. Si chiusero nel porcile fino alla mattina. C’era uno che si chiamava Renzo. Senti questa.  Passarono anni,  io e mio fratello si aveva un camion, si trasportava benzina, il tank aveva una perdita, avevamo bisogno di un buon saldatore e ci indicarono di andare là dove erano buoni saldatori italiani. Si trovò il luogo dove fare la saldatura. Nel parlare lui notò che eravamo toscani e disse: “toscanacci!”. Allora io: “Perche ce l’hai con noi?”  Mi disse la storia che gli era accaduta a Milano. Subito anche la mia testa ricordò! Prima pagai e poi gli domandai: “Tu ti chiami Renzo?”   Lui disse: “Come sai il mio nome?” “Ricordi, ricordi” Dissi “io stavo a Milano nei giorni che finì la guerra”.

Grazie a Dio si ritornò a casa! Se ne aveva proprio bisogno! Ci adattammo alla vita civile. In Italia l'aria era pesante, mancava di tutto, mangiare scarseggiava, nelle campagne i con­tadini vendevano a mercato nero. O meglio tutto era a me­rcato nero. I politici facevano schifo. I monarchici tentaro­no di restare.  I comunisti ancora non capivano che l’America anche con i suoi bombardamenti aveva liberato l'Europa dai Nazis­ti e, se vuoi capire, anche dal Comunismo. Non dimentichiamo pure i signori inglesi.
 
Noi lasciammo l’Italia ai primi del mese di gennaio del 1947. Mio fratello stava sempre in contatto con Pippo e sapeva più o meno che succedeva. Aveva sentito che gli americani ci mandavano in America, poi che ci avrebbero compensato lasciando a noi i camion,  infine tutte sciocchezze. Mamma era nata in America così fu risolto il proble­ma,  i miei nonni da parte di mamma emigrarono qui, penso nella fine del 1800, così nacque mamma e un altra zia, non­no era lucchese e nonna di Pescia. Dal lato di mio padre  i nonni erano nati a Uzzano Pescia.

A dire la verità l’Italia era sparita dalle nostre teste: a me come a tutti noi non interessava di quello  succedeva nello stivale.

Ho saputo di quello che successe a Pippo da un italiano di Altopascio che aveva un libro con la storia.  L’ho letto ma non potevo capire realmente il motivo. Grazie al PC poi con gli anni ripresi i contatti con l’Italia,  poi anche la TV mi ha dato la voglia di sapere, e qui mi fermo.

Questa è una parte della mia storia. Ho cominciato a scrivere la mia biografia. Chissà se la finirò.

 

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